L’insolito
film-documentario di Tony Gatlif non è solo un viaggio attraverso lo spazio (Latcho
Drom, nella lingua romanes parlata dai gitani, vuol dire appunto “buon
viaggio”) ma anche attraverso il tempo, nell’arco di circa 1000 anni. Il progetto
del regista, infatti, è quello di guidare lo spettatore, al di là degli
stereotipi e dei pregiudizi, attraverso il lungo cammino che le genti Romanes
intrapresero dopo l’anno mille, dalle regioni più occidentali dell’India,
probabilmente il Rajastan, attraverso la Persia, la Turchia, i Paesi dell’Europa
orientale, i Balcani, il Nord Europa, la Francia e infine la Spagna, lungo il
corso dei secoli. Il filo conduttore del film è la musica, unica eredità,
patrimonio e ricchezza di un popolo che ha fatto del nomadismo la sua scelta di
vita, del disprezzo della ricchezza e degli agi dei Gage (i non Rom)
la sua filosofia.
La musica, eterea, impalpabile, eterna e ubiqua, suonata senza la conoscenza delle note e degli spartiti, ha amalgamato un popolo spesso in fuga dalle civiltà che non li ospitava o li scacciava apertamente. Il patrimonio musicale gitano vanta nel suo repertorio la melodia degli odierni Rabari (i famosi musicisti del subcontinente indiano), sonorità turco-caucasiche e balcaniche, la manouche della Francia, il flamenco della Spagna e l’americano Gypsy Swing (fra tutti Django Reinhardt). La musica trascende le divisioni dei popoli, le paure di chi è diverso e per di più nomade, di chi vive nelle periferie, nei ghetti o nelle aree di sosta dei borghi rinascimentali, delle città industriali o delle metropoli moderne. Gli zingari - nome improprio visto che tra loro si chiamano semplicemente rom, ossia uomo - si sono divisi nel corso dei secoli in grandi famiglie con peculiarità e caratteristiche legate ai mestieri, alla lingua, alle tradizioni o ad altro ancora.
La musica, eterea, impalpabile, eterna e ubiqua, suonata senza la conoscenza delle note e degli spartiti, ha amalgamato un popolo spesso in fuga dalle civiltà che non li ospitava o li scacciava apertamente. Il patrimonio musicale gitano vanta nel suo repertorio la melodia degli odierni Rabari (i famosi musicisti del subcontinente indiano), sonorità turco-caucasiche e balcaniche, la manouche della Francia, il flamenco della Spagna e l’americano Gypsy Swing (fra tutti Django Reinhardt). La musica trascende le divisioni dei popoli, le paure di chi è diverso e per di più nomade, di chi vive nelle periferie, nei ghetti o nelle aree di sosta dei borghi rinascimentali, delle città industriali o delle metropoli moderne. Gli zingari - nome improprio visto che tra loro si chiamano semplicemente rom, ossia uomo - si sono divisi nel corso dei secoli in grandi famiglie con peculiarità e caratteristiche legate ai mestieri, alla lingua, alle tradizioni o ad altro ancora.
Nessun
regista saprebbe raccontare tale avventura umana meglio di Tony Gatlif, autore di
origini gitane, capace di affrontare con filologia e poesia, armonia e
schiettezza, l’anima di un popolo triste, troppo spesso odiato, evitato,
stereotipato e scacciato ma mai compreso del tutto. Un popolo dalle tante
inaccettabili contraddizioni ma incapace nella storia di avere un solo esercito
o aver mai mosso guerra ad un altro popolo, subendo, senza nemmeno la
possibilità di lasciarne testimonianza scritta, persecuzioni e stermini (basti
pensare al loro “porrajmos” o “grande divorazione” portato a termine dai
nazisti durante la seconda guerra mondiale). Il film sottolinea la loro perenne incapacità
di affidare le loro tradizioni, la loro memoria collettiva ad una qualsivoglia
modalità che sia durevole, come la scrittura. La loro eterna malinconia si
affida alle effimere e fuggevoli note delle musiche e delle canzoni, tramandate
all’aria aperta, sui carrozzoni o le roulotte, di generazione in generazione, da
loro che sono appunto chiamati “figli del vento”.
Danilo Giorgi
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