16 settembre 2013

FILM AL CINEMA - "In Another Country" di Hong Sang-soo

Già dalle prime inquadrature lo spettatore viene condotto in un paesaggio marino, un luogo di villeggiatura molto lontano da contesti a noi familiari: siamo nella Corea del Sud, dove il mare è marrone e il cielo perennemente grigio. Colore e fotografia vengono utilizzati come strumenti che sottolineano un’atmosfera rarefatta e surreale.
Il film presenta un impianto quasi teatrale costituito da uno sfondo - sia in interni che in esterni - fisso ed immobile per l'intera durata narrativa. Si evince immediatamente che il tutto è voluto...ma per trasmetterci cosa? per emozionarci con che?
I dialoghi surreali e ripetuti fino allo sfinimento - unica nota che attribuisce una vis comica alla pellicola - vengono immediatamente rievocati dalla memoria di ognuno tra un sorriso amaro ed una mancanza di sorpresa che svilisce la narrazione filmica. Un puro esercizio di stile, in cui forse l’autore è l'unico a divertirsi. La Huppert si salva solo grazie alla sua sensibilità interpretativa e alla sua espressività artistica.
Ci troviamo davanti ad una celebrazione della solitudine umana, dove al di fuori dai nostri punti culturali di riferimento (Occidente) tutto diventa strano ed estraneo, individualistico (Oriente). Ed è solitudine solipsistica, non feconda, di pura enunciazione teorica. Né piacevole come intrattenimento né tanto meno aiuta a vivere.
Carla Costanzi

1 commento:

  1. Ciao Carla, innanzitutto bentornata su Cinequale!
    Quanto alla recensione, stavolta ci troviamo su posizioni completamente differenti. A me “In Another Country” è piaciuto.
    Si tratta di un film nel quale l’esercizio di stile viene immediatamente esibito (il plot prende le mosse proprio da una ragazza che scrive una sceneggiatura): cinema sul cinema quindi, innanzitutto come dichiarazione d’amore del regista coreano nei confronti della cinematografia francese post Nouvelle Vague, come si evince dalla stessa presenza della Huppert nonché da certe atmosfere esplicitamente riprese ad esempio da Rohmer.
    Proprio questa premessa diviene elemento fondante dell’intenzione espressiva dell’autore: un omaggio e nello stesso tempo una variazione sul tema. E’ vero che la trama insiste sulla solitudine e sull’incomunicabilità ma il dichiarato manierismo della messinscena ha prodotto in me spettatore una distanziazione salutare nei confronti della materia narrata: è come se il regista ci volesse indurre a non prendere troppo sul serio le vicende dei suoi personaggi per permetterci di osservare il malessere e la confusione che esprimono con il filtro necessario a ridimensionarne il pathos, stemperando il dramma con la contemplazione distaccata - ma comunque affettivamente partecipe - di difficoltà umane che possono riguardarci tutti.
    In tal senso mi ha comunicato una sensazione di levità: lo spettatore può proiettare le sue emozioni analoghe sullo schermo della rappresentazione per permettersi di osservarle con una certa distanza e magari sorridere affettuosamente dei limiti della comunicazione interpersonale. Anche perché non c’è ombra di tragedia ma semplicemente la narrazione di eventi quotidiani tratteggiati con un registro per lo più minimalista: incontri mancati o magari un po’ deludenti, attese prolungate, incomprensioni ed incertezze. Nel complesso lo trovo quindi un film che può aiutare a vivere.

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