26 dicembre 2015

FILM al cinema - "La felicità è un sistema complesso" di Gianni Zanasi

La Felicità NON è un sistema complesso sembrerebbe suggerirci - in realtà - l’autore Gianni Zanasi, di ritorno sugli schermi dopo otto anni da Non pensarcila commedia vincitrice del Premio Fedic 2007. Sì perché, a ben vedere, tutti quei "sistemi complessi" che ci circondano o ci schiacciano altro non sono che sovrastrutture estranee alla nostra vera identità e proprie solo di quel mondo esteriore - artefatto ed ingannevole - nel quale ci confondiamo fino a perdere quasi inconsapevolmente noi stessi. Ci convinciamo, così, che siano nostri quei bisogni, quelle ansie legate al passato irrecuperabile, quelle aspirazioni che pur non appartenendoci hanno comunque attecchito in noi persuadendoci dell’esatto contrario. Da qui, poi, quel senso di disagio diffuso chiamato "infelicità" che ci affligge spesso per una vita intera.
Ma le cose non stanno realmente così e Gianni Zanasi sembra saperlo benissimo. Nessun particolare di questo scenario pare - infatti - sfuggirgli e l’uso della macchina da presa, sempre avvolgente e ben mirato, si concentra intensamente sui vari personaggi per tirarne fuori la psicologia attraverso sguardi passivi e remissivi oppure fieri e determinati, i primi propri di quei tantissimi che sono sempre avviluppati nei tentacoli dell’infelicità ed i secondi, invece, tipici di quei pochissimi che sono ancora in grado di esprimere (e meno male) la forza della propria sana (ed etica) autenticità. 
Azzeccate sia le prove di Valerio Mastandrea, adattissimo nel panni del protagonista, l’intermediario di successo Enrico Giusti, che quella di Hadas Yaron, nel ruolo di Achrinoam, una giovane stralunata ma molto meno infelice di quanto appaia. Apparentemente meno comprensibile, invece, la figura del "figlio di papà" Carlo Bernini (Giuseppe Battiston), il quale però rivelerà ben presto il suo ruolo funzionale a tutto il quadro rappresentato. 
Il mix di suggestione ed atmosfera creato dallo scavare nei personaggi e nelle loro intime storie crea un’ambientazione seducente, a tratti come misteriosa, e manifesta tutta la sua capacità espressiva via via che ci si avvicina all’epilogo della vicenda. Di notevole importanza anche l'uso della fotografia e della musica.
Certo, il tema affrontato non ha un contenuto squisitamente originale, ma la rappresentazione della nostra nevrosi collettiva risulta comunque efficace ed arriva dritta al punto cui tende grazie ad una costruzione appropriata e ad una resa filmica convincente. Cambiare si può, anzi, non se ne può proprio fare a meno quando l'inganno, finalmente, è stato (seppure inaspettatamente) svelato.
AleLisa

1 commento:

  1. Un'altra recensione di “La felicità è un sistema complesso” di Gianni Zanasi

    (contiene spoiler)

    Partendo dal canovaccio della commedia, Zanasi realizza quello che a pieno titolo può definirsi un film d’autore, nel quale alterna la prosa narrativa - affidata allo svolgimento della vicenda e ad alcuni momenti dialogati - al cinema di poesia, che si esprime attraverso la sapiente combinazione di immagini e musica.
    I temi sono diversi, dall'esistenziale al sociale, con risvolti anche spirituali. Il titolo, parte integrante del discorso estetico dell’opera, svela già il paradosso su cui questa si fonda. Coloro che nel film si riferiscono alla semplicità, alla purezza, addirittura al divino (Bernini padre e figlio), sono proprio i personaggi che vengono rappresentati come più lontani da ciò di cui parlano. Enrico Giusti inizia ad accedere invece ad una dimensione “altra” attraverso l’incontro con la giovane “disadattata” Achrinoam, intraprendendo un processo di cambiamento che lo porterà a riscoprire un’essenzialità in grado di riconciliarlo con se stesso. Rispetto alle questioni sociali sollevate il finale non offre facili soluzioni ma resta comunque aperto alla speranza di un futuro affidato a dei giovani sani ed animati da principi etici, come Filippo e Camilla Lievi.
    Il percorso del protagonista si rispecchia nell'accuratissima scelta stilistica della messinscena, che cambia man mano che si procede nello sviluppo della trama: nella prima parte i movimenti di macchina sono spesso obliqui e le inquadrature presentano angolazioni inconsuete, volutamente “difficili” per chi guarda, mentre nella seconda parte è come se la regia, che resta sempre estremamente “mobile”, diventasse più fluida e distesa.
    La modalità di racconto, dai tempi volutamente dilatati, è estremamente intensa e suggestiva. Come ben sa chi conosce la lezione formale del western post-leoniano, l’uso del ralenti o di un certo tipo di contrappunto musicale alle immagini conferisce una misura di solennità ad alcune scene, presenti soprattutto nella parte iniziale; ma quest’accenno di estetizzazione della realtà non procede in una direzione falsificante perché controbilanciata dall'ironia e dalla modalità antiretorica con la quale vengono contemporaneamente tracciati i caratteri dei personaggi e le situazioni in cui si trovano. Anche le citazioni di Fellini, come la sequenza nelle grotte (da “Otto e mezzo”, 1963) o l’addio alla stazione (da “La dolce vita”, 1960), sono episodiche, esplicite e consapevolmente rielaborate. In tal senso il manierismo di Zanasi risulta creativo e propone una sintesi originale, a differenza di quello del Sorrentino de “La grande bellezza” (2013).
    La sceneggiatura è costruita con estremo rigore, notevole soprattutto nei dialoghi, i quali presentano spesso battute memorabili e che colpiscono nel segno, pur rinunciando al facile effettismo. Gli attori sono diretti in modo superlativo, tale da far esprimere a ciascuno il meglio delle sue potenzialità. Ottimo Mastandrea, menzione speciale per Battiston. Anche i ruoli secondari sono estremamente curati.
    Molto è affidato alla colonna sonora musicale, che da sola assieme alle immagini sostiene buona parte del film. La scelta alterna brani elettronici (da “Victim” dei Win Win a “Ca plane pour moi” di Plastic Bertrand) ad altri di forte richiamo melodico (“In a manner of speaking” nella versione dei Nouvelle Vague a “Just a Habit” dei Low Roar), non trascurando neanche la citazioni di classici come “She’s a Rainbow” dei Rolling Stone o l’omaggio, nel prefinale, al “Theme de Camille” di Georges Delerue, brano composto per “Il disprezzo” (“Le mepris”, 1963) di Jean-Luc Godard e già ripreso da “Casinò” (1995) di Martin Scorsese.
    “La felicità è un sistema complesso” coniuga al meglio il risultato estetico con quello esistenziale: attraverso la trasfigurazione del quotidiano nel “bello” può produrre una profonda catarsi nello spettatore, veicolando contemporaneamente un messaggio costruttivo.

    Pier

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