Seppur interessante nel raccontare una vicenda sconosciuta ai più, Widow Clicquot, dal punto di vista formale, è debitore di atmosfere analoghe già viste in film come il recente Emily, costringendo la messinscena all'interno di un'estetica cupa che privilegia interni poco illuminati, mentre la narrazione si sofferma su passioni forti ed emozioni intense, spingendo volutamente i personaggi verso i cliché: la vedova che viene proposta come icona protofemminista, coraggiosa e determinata nel rivendicare la sua indipendenza e nel portare avanti una visione della vita alternativa a quella maschile; l'ex marito, descritto alla maniera di un artista "maudit", che ha intuizioni geniali sul trattamento dei vitigni ma la cui psiche alterata lo porta ad abusare di droghe e a suicidarsi in giovane età; il commerciante di vini che incarna il ruolo dell'avventuriero affascinante ed amorale. Non manca neanche il contorno di personaggi tanto adiuvanti, che si dedicano alla causa della protagonista, quanto opponenti, per invidia o interesse: il tutto sempre all'interno di convenzioni narrative consolidate e riconoscibili.
Il film inoltre dura troppo poco per permettere allo spettatore una piena partecipazione emotiva nei confronti della vicenda e si conclude troppo bruscamente rispetto a quanto dipanato fino a poco prima, affidando alle scritte in sovraimpressione le informazioni mancanti.
Nonostante tutto ciò Widow Clicquot, se si accettano i codici filmici all'intero dei quali si situa, ha una sua efficacia sia espressiva che esistenziale come titolo appartenente ad un particolare genere cinematografico, quello delle opere che rielaborano vicende reali all'interno di un'estetica postmoderna (qui dai tratti darkeggianti) ed alla luce della sensibilità contemporanea, che in tal caso propone un messaggio sulla femminilità che si situa come incoraggiamento di istanze costruttive.
Pier

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