31 gennaio 2017

CINEMA D'ESSAI - "Shoah" di Claude Lanzmann (Francia 1985)

A proposito del film Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, Primo Levi faceva giustamente notare quanto fosse pericolosa la deriva della memoria che stava indistintamente colpendo sia i carnefici che le vittime e quanti, nati decenni dopo i drammatici avvenimenti, si trovavano nel delicato compito di giudicare e raccontare quanto non avevano vissuto in prima persona. Dalla morte di Levi sono stati prodotti innumerevoli film, fiction, drammi, sceneggiati, commedie e documentari aventi per tema l’olocausto e davvero pochi possono vantare profondità e serietà di analisi.
Tra questi si deve indubbiamente collocare Shoah, lo straordinario documentario di Claude Lanzmann del 1985. Lontano da una rivisitazione manichea e hollywoodiana degli avvenimenti, da una banale, facile ma sterile differenziazione tra buoni e cattivi che da molti registi è stata troppo spesso effettuata, Lanzmann ripercorre il dramma del genocidio degli Ebrei senza alcuna finzione cinematografica, semplicemente con oltre dieci ore di serrate interviste a ex deportati, testimoni, complici e carnefici. 
In un viaggio lungo la Francia, la Germania, la Polonia e altri paesi coinvolti nei tremendi fatti raccontati, l'autore - a volte coadiuvato da un’interprete - rinuncia agli artifici di una trama coinvolgente, di una musica struggente, di immagini crude e forti che possono avvincere lo spettatore ma anche, trasportandolo nel mondo della finzione, astrarlo dal vero, da quel "vero storico" che rende quasi letterario e surreale quanto accaduto. Il film pone domande a cui non vi è una risposta sempre chiara, individuabile, risposta che forse nemmeno lo spettatore più preparato potrebbe dare. 
L’olocausto degli Ebrei e di altre minoranze durante l’arco di poco più di un lustro non è certamente un argomento di facile trattazione. Hollywood troppo spesso lo ha rappresentato con la semplicistica dicotomia in cui lo spettatore sa subito identificare chi è colpevole e chi recita la parte del cattivo. Ma tale procedimento troppo spesso porta ad uno straniamento dello spettatore, ad una sospensione di cocenti e più profonde domande che lo svolgersi del film non permette vengano fuori. La lentezza delle interviste, unita all’immediata trattazione di quelli che sono i veri temi d’analisi, sono quanto il regista riesce a far emergere con drammatica e forte consapevolezza.
Benché la lunghezza del documentario non lo renda molto accessibile, la modalità di intervista continua sia poco "spettacolare" e le tematiche trattate decisamente non adatte ad un pubblico poco propenso o avvezzo ad una speculazione analitica profonda, esso è necessario affinché la giornata della memoria non si tramuti in sterile commemorazione ma in un pretesto di riflessione e seria valutazione degli eventi.
Danilo Giorgi

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