26 gennaio 2017

CINEMA D'ESSAI - "Tulpan" di Sergej Dvorcevoj (Germania/Svizzera/Kazakistan/Russia/Polonia 2008)

Realizzare un film intenso e poetico con un budget ridotto all’osso, una sceneggiatura semplice, un’ambientazione scarna e desertica, nonché senza attori professionisti, è quasi una sfida che forse pochi registi sarebbero in grado di raccogliere: di sicuro riesce appieno al kazako Sergej Dvorcevoj con lo splendido Tulpan, girato nel 2008. Ciò che resta infatti dopo la visione è senza dubbio un sapore di amara poeticità, quella stessa sensazione che generalmente si prova dopo aver letto una struggente poesia, la quale, benché ci abbia fatto star male, ci ha indubbiamente toccato nel profondo per la sua semplicità, la sua schiettezza del linguaggio, la profondità dei suoi messaggi e la malinconica mestizia con cui ci ha commosso.
Tulpan è uno di quei film estremo-orientali in cui si assiste ad uno scontro generazionale tra giovani che seguono in modo fanatico una modernità connotata spesso da valori meramente consumistici (piombata troppo velocemente in antichi e quasi anacronistici villaggi rurali) e anziani legati a tradizioni ormai in via di estinzione o quantomeno di difficile accettazione per chi non ci è cresciuto.
Nell’opera in questione questo scontro si manifesta con sfumature insolite, dal momento che il protagonista è inevitabilmente tentato dalle sirene della modernità - metaforicamente impersonate dal datato brano Rivers of Babylon nella versione dei Boney M. (1978), suonato continuamente e ossessivamente da una gracchiante e vetusta radiolina - e nello stesso tempo legato al mondo dei suoi avi, desideroso di condurre la propria vita in un deserto che a noi spettatori appare tremendamente arido, inospitale e decisamente infelice. Lo scontro generazionale dunque si palesa interno al protagonista, che ne subisce le meste conseguenze. 
Come si è già affermato, del film resta impressa l’estrema semplicità, se non la povertà del tutto: dei costumi, degli arrangiamenti, delle ambientazioni e finanche della trama stessa. Eppure questa stessa povertà (perfetta come ambientazione scenica) nasconde un fascino inaspettato e si tramuta, nel corso del film, in delicata quanto struggente poesia.
Il regista ha voluto che gli attori fossero tutti non professionisti e che per un mese prima delle riprese abitassero forzatamente in una yurta (tipica tenda circolare dei pastori nomadi kazakhi); inoltre numerosissime scene sono state il frutto di un’improvvisazione determinata da cambiamenti ed impedimenti esterni non previsti. Nonostante tutto ciò l’effetto che resta del film è quel mirabile sbigottimento che si prova nell’ammirare un meraviglioso fiore (tulpan, ossia tulipano) nato in un arido e polveroso deserto.
Danilo Giorgi

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