10 gennaio 2014

FILM - "Carissima me" ("L'age de raison", 2010) di Yann Samuell

Avviso: l'articolo rivela dettagli della trama del film
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Una gradita sorpresa la visione di "Carissima me" ("L'age de raison", 2010) di Yann Samuell, commedia dai risvolti esistenziali che evita di prendersi troppo sul serio. Il tono è leggero nel raccontare la storia della protagonista quarantenne che riceve le lettere di se stessa bambina di sette anni: affermatissima manager piena di impegni e senza troppi scrupoli, la Margaret di Sophie Marceau, attraverso questa curiosa corrispondenza,  riscopre pian piano - e non senza resistenze - le proprie aspirazioni soffocate dalla disillusione, alla ricerca di un nuovo equilibrio sul quale rifondare la sua vita con una diversa consapevolezza di sé.
La messinscena è ricercata e accattivante, a base di scarti spaziali (tra la città e la vita di provincia, con l'implicita contrapposizione dell'impersonalità e dei ritmi frenetici della prima al diverso rapporto con il tempo e l'ambiente naturale della seconda) e temporali (i flash-back sui primi anni di vita della protagonista si alternano al tempo presente della narrazione). Frequenti i siparietti nei quali si dispiega l'immaginario colorato e fantasioso della piccola Marguerite (nome poi significativamente cambiato in Margaret per suonare meno provinciale e più "à la page"), che danno al film quel tocco surreale che può ricordare qualche precedente illustre (c'è chi ha parlato dell'Amelie di Jeunet o del Gondry de "L'arte del sogno") ma con l'umiltà della maniera esplicitamente esibita.
Nonostante l'apparenza della commedia leggera, "L'age de raison" mette in scena diversi temi e prassi della psicologia contemporanea: la ricognizione della propria storia familiare e dei sogni del bambino interiore in funzione catartica; la potenzialità creativa dell'immaginario, in grado di trasfigurare la realtà quotidiana (la protagonista, già nella sua spregiudicata attività lavorativa, si serve della proiezione identificativa con famose figure femminili che usa in funzione di archetipi; in seguito ricontatta anche l'espressione della sua fantasia nella modalità più libera e non finalizzata ad un "utile"); il recupero della dimensione simbolica nel quotidiano, che si esplicita in veri e propri atti liberatori, che vanno dal riappropriarsi del suo nome autentico al distruggere programmaticamente pile di piatti assieme al suo compagno, tra le risate di entrambi.
La ricomposizione finale avviene e non è così scontata come potrebbe sembrare. Se si riesce a non farsi distogliere da una certa semplificazione dei caratteri, dal rispetto di alcune convenzioni di genere e dal tono programmaticamente edificante della conclusione (elementi che fanno parte della fiaba cinematografica contemporanea), si può apprezzare questo film e coglierne magari qualche spunto di riflessione.
Pier

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