10 ottobre 2025

"The Artist" di Michael Hazanavicius (Francia 2011): la psicologia delle immagini e del silenzio

(contiene spoiler)

The Artist è un film che, dietro l’omaggio nostalgico al cinema muto, porta in scena un dramma profondamente umano: la difficoltà di accettare che chi abbiamo formato, sostenuto o persino “creato” possa, a un certo punto, superarci. La scena in cui il protagonista appone il neo sulla guancia della giovane attrice è emblematica: non è solo un gesto di maquillage ma l’atto simbolico di un demiurgo che dà vita a una nuova stella. Il paradosso psicologico sta nel fatto che, nel momento in cui quella stella inizia a brillare di luce propria, inevitabilmente oscura chi l’ha accesa.
Questo tema, presente anche in altri film, da Luci della ribalta (Limelight) di Charlie Chaplin (USA 1952) al più recente A Star Is Born di Bradley Cooper (USA 2018), tocca corde universali: il timore del declino, la fragilità dell’ego, l’incapacità di reggere il confronto con chi ci supera, soprattutto se è qualcuno che abbiamo aiutato a emergere. Il protagonista non “genera” un erede, ma plasma una figura che gli deve la propria identità. La tensione psicologica nasce quando quella creatura, invece di restare grata e subordinata, diventa autonoma, indipendente, più luminosa del suo stesso creatore. Qui la ferita non è solo narcisistica, è quasi ontologica: se ciò che ho creato mi supera, allora chi sono io?
Il mito che meglio illumina questo conflitto è quello di Pigmalione: lo scultore che dà vita a Galatea e che poi, inevitabilmente, si trova davanti a una creatura capace di vivere oltre il suo atto creativo. Nel film questa dinamica diventa una metafora del successo e della fama: lo star system produce idoli ma quegli idoli possono rapidamente sostituire chi li ha generati.
Ciò che rende The Artist particolarmente riuscito non è solo il tema, bensì il linguaggio con cui viene espresso. Hazanavicius sceglie infatti di raccontare la caduta di una star del cinema muto proprio attraverso le forme espressive del cinema muto stesso. Senza parole, gli stati d’animo si comunicano tramite il corpo, i volti, i gesti. Ogni smorfia è amplificata, ogni movimento diventa significante. La scena al ristorante, in cui la giovane attrice parla delle “smorfie” del protagonista, non è un dettaglio casuale: sottolinea la differenza tra un modo di comunicare diretto, visibile, immediato, e il nuovo linguaggio del sonoro, più sottile e sfaccettato.
In questo senso, la difficoltà psicologica del protagonista viene rappresentata con immagini limpide, nette, prive di ambiguità. Se il linguaggio verbale consente complessità e sfumature, il muto costringe a un’espressività radicale, quasi primitiva. È come se Hazanavicius ci dicesse che il dramma dell’ego ferito e del declino non ha bisogno di parole complesse: basta un volto segnato dalla paura di sparire per arrivare dritto allo spettatore.
A rendere tutto ancora più potente contribuisce l’interpretazione di Jean Dujardin, che dimostra una rara capacità di rendere, attraverso le espressioni del viso, lo stato d’animo del momento, passando con naturalezza da sorrisi raggianti e accattivanti ad espressioni cupe e tormentate in pochi istanti, rendendo così reali le aspirazioni e i conflitti del film.
Anche la colonna sonora contribuisce a questo gioco di rimandi e contrasti. La citazione del tema di Vertigo di Hitchcock (USA 1958) - con la sua spirale musicale che evoca ossessione e perdita - non è solo un omaggio al cinema classico ma una scelta consapevole: come Scottie, anche George Valentin è vittima di un’illusione, di un amore (per il passato, per la propria immagine) che lo trascina verso il baratro. In un film muto, quella musica diventa una voce fuori campo, un commento sonoro che amplifica il dramma del protagonista, l’eco di una paura che non ha bisogno di parole per essere udita.
The Artist diventa così non solo un esercizio cinefilo ma un viaggio nel cuore fragile del successo e della sua perdita, capace di far rivivere non solo un’epoca del cinema, ma anche le verità psicologiche più profonde e dolorose legate al fallimento, all’invidia e al timore di essere dimenticati. The Artist dice più di mille parole su ciò che più temiamo: di essere superati, di scomparire.

Daniele Ciavatti

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