Quando il cinema incontra la psicologia
‘SURROGATES’
DI JONATHAN MOSTOW: AUTOMI, MASCHERE E ARCHETIPI
Surrogates di Jonathan Mostow è uno di quei film che intrattiene lo spettatore con un ritmo ben strutturato, spaziando tra scene tipiche di un film d’azione a dinamiche di un vero e proprio giallo. Tuttavia, dove questo film trova la sua massima forza è, probabilmente, nelle tematiche sociali che emergono dal racconto. Il mondo è popolato da surrogati, ossia automi di vario tipo, genere, fattezze, che rappresentano l’interfaccia col mondo degli esseri umani, i quali preferiscono vivere dentro casa, chiusi in una stanza con elettrodi fissati sul capo e visori sugli occhi. L’uomo, dunque, sceglie di vivere nell’ombra e affidare a una sua copia (non per forza fedele dal punto di vista fisico) l’interazione con gli altri e col mondo che li circonda. Questa dinamica si lega a tematiche sociali che due intellettuali illustri, Luigi Pirandello e Carl Gustav Jung, avevano in qualche modo esplorato fornendoci a riguardo delle teorie molto interessanti. Parliamo soprattutto dell’idea di maschera, strumento fisico e metaforico, presente nella storia dell’umanità fin dai tempi più remoti sia per indicare lo status sociale (ad esempio i capi tribù che indossavano maschere o dipingevano il proprio volto), sia per altri utilizzi a seconda della cultura (basti pensare all’uso che se ne faceva nelle culture egizia e greca antiche o presso gli indiani d’America).
PIRANDELLO
E LE MASCHERE
Luigi
Pirandello, celeberrimo scrittore e drammaturgo siciliano, ha incentrato gran
parte della sua poetica sul concetto di maschera: l’essere umano, secondo
Pirandello, si trova costretto a indossare quella che lui definisce una maschera
sociale, che corrisponde a un ruolo imposto all’individuo dall’ambiente in
cui si trova. La maschera sociale coincide con quella che Pirandello chiama forma:
una struttura rigida, allo stesso tempo rassicurante perché permette
all’individuo di stare in società ma alienante perché ne soffoca,
inevitabilmente, la spontaneità. Nella sua poetica sono centrali i temi della
sofferenza, della frustrazione e dell’incomprensione provocati da questa
tensione tra l’essere autentico e la maschera sociale. Di base, infatti, il
conflitto è generato dal fatto che la società impone ruoli ed etichette mentre
l’uomo per sua natura è fluido, molteplice, contraddittorio.
JUNG
E L’ARCHETIPO DELLA PERSONA
Carl
Gustav Jung, psichiatra e psicanalista svizzero, attraverso i suoi
concetti cardine di archetipo e inconscio collettivo, che rappresentano
un processo psichico fondante delle culture umane contenente tutti i
comportamenti ‘universalmente riconosciuti’ agli esseri umani (e che quindi
appartengono a tutta l’umanità e non ai singoli individui), pone grande
attenzione al tema della relazione tra individualità e collettività. Jung,
durante i suoi studi, identificò una serie di archetipi. Il primo di questi
archetipi a manifestarsi all’individuo è l’archetipo della Persona, perché
è quello più vicino alla realtà dell’individuo, al suo mondo conscio. Per
provare a capire il concetto di Jung pensiamo un attimo all’etimologia della
parola ‘persona’: essa deriva dall’etrusco phersu (maschera), diffondendosi
poi nella cultura latina (persona: maschera teatrale; verbo personare:
risuonare attraverso, come la voce all’interno della maschera) e greca (prósōpon : volto, maschera). Pare
evidente che il campo semantico sia quello della maschera, quindi essere una
persona, etimologicamente, equivale all’essere un personaggio all’interno della
realtà sociale.
La Persona, ricollegandoci a Jung, diventa quindi un’interfaccia che permette di collegare individuo e mondo esterno, rappresentando un vero e proprio compromesso sociale tra le esigenze proprie e quello che la società ci richiede. Anche in Jung troviamo dunque, come in Pirandello, questa idea che le maschere a disposizione degli individui siano molteplici e che essi siano in grado di indossare quella più adatta alla situazione, proprio come un musicista sceglie le note giuste per un determinato accordo. L’uomo è, dunque, molteplice, e le stesse maschere indossate non sono maschere individuali ma maschere condivise da tutti, perché appartengono all’inconscio collettivo. La Persona è un frammento della psiche collettiva, che ci permette di simulare l’individualità, ma che in realtà non rappresenta l’individuo nella sua totalità e nel suo essere interiore. Per Jung l’utilizzo di maschere potrebbe avere due rischi: uno è rappresentato dal fatto che l’individuo si trovi a cambiare continuamente maschere perdendo il senso di sé più interno; l’altro, che si può ritrovare nel film di Mostow da cui è partita questa analisi, riguarda il fatto che esiste il rischio concreto che l’individuo indossi una maschera e non se ne riesca più a separare, consciamente o inconsciamente. In questo caso l’uomo aderisce alla sua Persona, si affievolisce l’Anima (altro archetipo junghiano di fondamentale importanza) e ci sarà più difficoltà ad avvicinarsi al proprio mondo interiore, alla propria consapevolezza, alla scoperta del vero sé.
SURROGATI
COME MASCHERE SOCIALI
In Surrogates troviamo questi concetti di maschere pirandelliane e junghiane estremizzate in un’ottica fantascientifica ma che possono trovare una vicinanza con le teorie appena analizzate. I surrogati non sono solo maschere ma veri e propri avatar che sostituiscono gli esseri umani nella loro vita quotidiana. Avatar che vengono scelti come si sceglie un nuovo paio di scarpe o una borsa, e che permettono all’individuo di vivere la vita che vuole senza ‘metterci la faccia’, nascondendosi in stanza e affidando a degli elettrodi la trasmissione delle vere emozioni. L’uomo dipinto nel film di Mostow è un uomo alienato che, incapace di vivere la vita reale, preferisce divertirsi a indossare maschere diverse e vivere la realtà - con tutte le sue sfaccettature e implicazioni emotive - nella comodità di quattro mura. Così facendo l’individuo si nasconde fisicamente e psicologicamente. Non si mostra e non mostra le sue debolezze, fisiche o mentali. Non si relaziona, non elabora i suoi traumi. È emblematica la scena in cui, verso la fine del film, vediamo il personaggio interpretato da Rosamund Pike per la prima volta. Sappiamo di lei da dettagli che ci vengono forniti durante il film: sappiamo che ha perso un figlio in un incidente, che non esce mai dalla sua stanza, che si imbottisce di farmaci e che affida tutta la sua vita al suo surrogato. Quando vediamo lei in carne ed ossa, senza più maschere, vediamo il senso della critica junghiana precedentemente analizzata: lei è un personaggio che sta soffrendo, in crisi per la morte del figlio (la cicatrice sul viso ci fa pensare, ma non viene esplicitato, che fosse coinvolta anche lei nell’incidente), ma che ha preferito nascondere la polvere sotto al tappeto invece di provare ad elaborare il lutto. Il surrogato le ha dato la possibilità di mostrare agli altri una persona diversa dal suo ‘io’. Lei ha quasi completamente abbandonato sé stessa per questo avatar, perché la sofferenza da affrontare era probabilmente tanta. Solo togliendo la maschera e scavando dentro di sé, l’uomo può riavvicinarsi all’anima e re-impadronirsi del suo vero ‘essere’.
Marco Aurelio Lorusso
Ciao Marco, interessante il tuo articolo che prosegue il tuo approccio psicologico al cinema...io ho già detto la mia rispondendo alla recensione di Daniele sull'altro post...
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