11 luglio 2012

FILM AL CINEMA - "Detachment - Il distacco" ("Detachment") di Tony Kaye

«Non mi sono mai sentito così profondamente distaccato da me e così presente nel mondo nello stesso momento». Inizia con questa frase di Albert Camus "Detachment - Il distacco", che si propone come una messa a fuoco delle problematiche del disagio esistenziale di adolescenti e adulti appartenenti alla periferia americana. Si tratta indubbiamente di un film pregevole nella sua realizzazione, a partire dalla scelta di soluzioni visive non convenzionali (dall'alternanza di b/n e colore alle composizioni fotografiche, dall'animazione grafica bidimensionale tracciata dal gesso sulla lavagna all'inserimento di numerosi flashback) supportate dall'uso superbo della fotografia e del colore. Eccellente l’interpretazione degli attori, a partire dal protagonista Adrien Brody fino al più piccolo cammeo.
Per i contenuti trattati, "Detachment - Il distacco" si può accostare a "L’attimo fuggente" ("Dead Poets Society") di Peter Weir: se però quest’ultimo lancia dallo schermo un inno vitale sull'onda del principio oraziano del "carpe diem", il primo resta soffocato in ogni traiettoria di uscita verso la speranza, non lasciando spazio alcuno a qualsiasi seppur forzata apertura verso se stessi e verso il mondo. In tal senso non lo si può certo far rientrare nell'ambito di quel cinema che possa aiutare a vivere, per quanto, al di là di tale contesto interpretativo, resta pur sempre un film di cui si consiglia la visione.
Carla Costanzi

1 commento:

  1. Film quasi paradigmatico di una certa tendenza "negativa" dell'arte contemporanea, "Detachment" ritrae il dolore e la confusione senza offrire alcuna apertura alla speranza né suggerire il minimo appiglio di soluzione. Questa insistenza sulla desolazione esistenziale e materiale fa nascere il sospetto di un certo compiacimento, principalmente nella scelta di delineare una carrellata di personaggi tutti segnati in qualche modo dal malessere e rappresentati attraverso la lente deformante dell’angoscia quando non della disperazione. Possibile che non si salvi proprio nessuno? Perché è questo il messaggio che arriva alla fine, ancor più intenso quanto magistralmente veicolato attraverso una messinscena ricercata e formalmente affascinante. Ed è proprio questa cifra espressiva così "autoriale" (ai limiti dello snobismo) che può riuscire a coinvolgere ancor più quanti - spettatori magari colti e sensibili - siano inclini a farsi trasportare all’interno di un universo filmico claustrofobico e soffocante. E non c’è neppure catarsi: nonostante il manierismo dello stile, l’approccio del film alla materia trattata resta fondamentalmente ancorato ad una sorta di "realismo" minimalista, che nulla concede a quella trasfigurazione nel sublime che l’arte può operare. Viceversa, si tratta comunque di un’opera troppo stilizzata per rimanere semplicemente un documento sociale.
    Personalmente non lo definirei un film che mi abbia aiutato a vivere. Anzi, direi che "Detachment" può risultare sia disturbante che sconfortante.

    RispondiElimina