27 febbraio 2014

FILM AL CINEMA - "American Hustle" di David O. Russell

Prendete qualcosa dello Scorsese di "Goodfellas" e di "Casinò" (dall'architettura narrativa all'uso del contrappunto musicale, fino a certe inquadrature e movimenti di macchina), miscelatelo con le atmosfere di celebri film che raccontano di truffe con toni da commedia (da "La stangata" in poi), aggiungete un pizzico di verve tarantiniana e completate la ricetta con un'accurata ambientazione vintage (come quella recentemente vista in "Argo"): ed ecco sfornato "American Hustle", ovverosia il trionfo della maniera, attraverso il riciclaggio di materiali filmici di seconda mano, assemblati e riproposti con una tale maestria - bisogna ammetterlo - da riuscire probabilmente ad incantare anche gli spettatori più smaliziati. 
Certo, gli ingredienti sono di prim'ordine: dalla sceneggiatura alla regia, dalla fotografia alla ricostruzione d'ambiente, dalla colonna sonora agli attori. Ma il risultato fa venire in mente una possibile interpretazione metacinematografica: che la l'inganno non sia anche quello operato dal film nei confronti di chi lo guarda, attraverso l'artificio della messinscena? Innanzitutto perché mandiamo giù quasi due ore e venti di spettacolo facendoci trascinare per lo più dimentichi che si tratta di un cocktail di ascendenze di altri titoli. In secondo luogo perché il potenziale di estetizzazione della resa filmica ci può indurre all'empatia nei confronti dei protagonisti e delle loro vicende. Alla perplessità circa il risultato espressivo si aggiunge quindi quella relativa al piano esistenziale. Il punto di vista dell'autore coincide con quello della materia narrata, rimanendo quindi all'interno di un orizzonte rappresentativo incentrato sul malessere e sulla confusione.
Pier

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