2 maggio 2017

CINEMA D'ESSAI - “Un amore” di Gianluca Maria Tavarelli (Italia 1999)

Oltre alle teorie di Platone sull’amore (elaborate in particolare nel Simposio), sempre inconfutabilmente valide, sullo stesso tema risulta molto interessante il film di Gianluca Maria Tavarelli, Un amore, che richiama alla memoria un romanzo di Piero Chiara, Una spina nel cuore. Benché il film abbia una trama estremamente semplice, raccontando solo un rapporto d’amore di due personaggi in dodici piani sequenza, la profondità dello stile narrativo e una regia sapiente lo rendono delicato quanto malinconico. In molte di queste scene l’immedesimazione dello spettatore è forte e sentita, non solo perché da sfondo alle varie vicissitudini dei due protagonisti ci sono dei richiami a fatti di cronaca o costume del nostro paese (la storia si snoda dal 1982 al 2000) ma perché inevitabilmente alcune delle varie “scene” sono riproposizioni di vita che ogni spettatore ha probabilmente vissuto in modo similare.
La vicenda dunque non ha nulla di eroico o di epico ma è narrata in modo semplicemente descrittivo, riuscendo ad incantare proprio per la sua semplicità mai banale. I personaggi sono dunque gli attori di quel rapporto d’amore che in ogni storia fatta di unioni, separazioni, litigi, incomprensioni e riavvicinamenti agiscono nel palcoscenico della vita quotidiana. Il sentimento stesso, in tutte le sue metamorfosi e declinazioni, diventa più importante degli stessi attori, che sembrano quasi subordinati ad esso.
Il film non è doloroso eppure resta profondamente pervaso da una forte malinconia e da una altrettanto marcata nostalgia della gioventù, di un tempo ormai vissuto e trascorso ma anche di un periodo del nostro paese e della nostra storia in cui l’assenza dei social network e di una assillante quanto compulsiva comunicazione informatica rendeva i legami e i rapporti più umani e, se non più facili e chiari, almeno più veri. Straordinaria la scelta della lettura finale della bellissima poesia di Umberto Saba, Un ricordo

Non dormo. Vedo una strada, un boschetto,
che sul mio cuore come un’ansia preme;
dove si andava, per star soli e insieme,
io e un altro ragazzetto. 

Era la Pasqua; i riti lunghi e strani
dei vecchi. E se non mi volesse bene
– pensavo – e non venisse più domani?
E domani non venne. Fu un dolore,
uno spasimo verso la sera;
che un’amicizia (seppi poi) non era,
era quello un amore;

il primo; e quale e che felicità
n’ebbi, tra i colli e il mare di Trieste.
Ma perché non dormire, oggi, con queste
storie di, credo, quindici anni fa?

Danilo Giorgi

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