Terry Gilliam torna al suo filone fiabesco-surrealista (quello di Munchausen e Parnassus) dopo The Zero Theorem, che si ricollegava invece alla sua vena fantastico-distopica, sulla falsariga di Brazil e di 12 Monkeys.
Liberamente ispirato alla celebre opera di Cervantes e con una gestazione produttiva molto travagliata (durata circa vent'anni), L’uomo che uccise Don Chisciotte conferma il talento dell’autore/regista attraverso la riproposizione di alcuni tratti distintivi del suo stile, come il profluvio del suo immaginario rutilante o la coinvolgente capacità affabulatoria. Il risultato è ottimo, nonostante
il rischio dell’autocitazione e quindi del manierismo, evitato da Gilliam grazie
alla capacità di tradurre in nuove modalità espressive i suoi stessi topoi
narrativi.
Più che analizzare i possibili significati del film l’invito è quello a lasciarsi innanzitutto trasportare dalla sua fantasmagoria onirica, privilegiando l’immediatezza percettiva al tentativo di interpretazione razionale, coerentemente con l’approccio di certa arte d’avanguardia. Qualche spunto: la creatività artistica è in qualche modo associata alla follia e si passa il testimone di generazione in generazione? Quella che percepiamo come realtà o finzione dipende dal punto di vista di chi guarda? Lo spettatore vede sempre e comunque attraverso lo sguardo dei personaggi dello spettacolo?
Pier
Lasciarsi andare, perdersi, scoprirsi improvvisamente immersi in un mondo magico, sospeso tra sogno e realtà, completamente rapiti da eventi rocamboleschi e fantastici fino quasi a confondersi in quel Don Chisciotte amabilissimo cavaliere d' altri tempi.
RispondiEliminaTutto questo può succedere grazie a Terry Gilliam, che si riconferma regista d'eccezione e di livello unico nel suo genere.
Capita così di uscire dalla sala con un animo rasserenato, un passo lieve, un bel sorriso stampato in viso ed una domanda: a quando un altro film dell'inconfondibile Terry Gilliam?