27 maggio 2013

FILM AL CINEMA - "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino

Sorrentino, da buon ambizioso, stavolta dirige una sorta di remake de "La dolce vita" cinquant'anni dopo, facendo sfoggio di maestria con evidente autocompiacimento. Il problema però non è tanto il confronto con Fellini quanto il non riuscire ad andare oltre la clonazione del suo immaginario per riproporlo allo spettatore contemporaneo in maniera aggiornata ai tempi ma depauperata del pathos e dello spessore lirico che contraddistinguono il cinema - già pienamente decadente - dell'autore riminese. Dal protagonista cinico e disilluso (giornalista scandalistico con un passato da scrittore) alla galleria dei numerosi personaggi che popolano la vicenda (dal cui disegno emerge la crudeltà, il grottesco, la malinconia e, a volte, qualche tratto di tenerezza), dal ritratto della Roma mondana, festaiola e di alto rango agli insistiti richiami cattolici (tra figure di potere ed altre in odore di santità), dagli squarci onirici allo stile rutilante, tutto è una messinscena del capolavoro felliniano e di spunti derivanti da altri suoi film, che cerca di riprodurre la stessa modalità di rappresentazione a partire dall'apparato visivo, con citazioni quasi esplicite di singole scene (come quella del commiato del porporato interpretato da Herlitzka che ricorda il colloquio tra Guido Anselmi ed il Cardinale in "Otto e mezzo").
"La grande bellezza" è quindi innanzitutto un'operazione dichiaratamente di maniera che non aggiunge nulla di originale, un trionfo della forma a scapito della sostanza, un esercizio di stile che si fonda sul vuoto di autentica inventiva. Che Sorrentino fosse un manierista si era capito fin dai suoi esordi ma qui raggiunge un culmine, sia dal punto di vista del talento che della freddezza. Il film è costruito attraverso una serie di procedimenti ad effetto in grado di incantare non poco lo spettatore: narrazione frammentata, virtuosismi di regia (particolari angolazioni di ripresa, movimenti di macchina avvolgenti, uso dello slow motion, ecc.), dialoghi che aspirano all'icasticità (sottolineati dal contrappunto reiterato della voce narrante del protagonista), colonna sonora evocativa (insistita e debordante, usata sia per accentuazione che per contrasto rispetto alle immagini), intensità espressiva degli attori (tutti bravi anche se va fatto un distinguo tra l'impeccabile professionalità di Servillo qui però a sua volta di maniera e le prove più misurate di Verdone e della Ferilli). Il risultato non manca e, da un certo punto di vista, è notevole: ma è come un trompe-l'oeil, tanto vivido quanto illusorio nella sua apparente profondità.
Ciò che riesce meglio a Sorrentino è anche in questo caso l'estetizzazione del malessere e della confusione: il contesto sociale riprodotto, per quanto colto nei suoi vizi come nella sua mancanza di prospettiva, rischia di risultare alla fine comunque più affascinante che desolante, grazie proprio a quella trasfigurazione della realtà operata attraverso i mezzi dell'arte di cui si parlava sopra. Con tutto il potenziale di falsificazione che ne consegue: un conto è il cinema di genere, fiabesco, archetipico, dove lo spazio della rappresentazione si situa esplicitamente in un altrove dell'immaginario, altro conto è la sottotraccia ben concreta ed identificabile di un film come questo, sulla quale si innesta una sofisticazione stilistica tanto raffinata da alterare a proprio piacimento la percezione spettatoriale della realtà di partenza. La magia del cinema viene utilizzata per ipnotizzare, per ammaliare, col risultato implicito di giustificare quel mondo apparentemente tratteggiato con spietatezza. 
La caratteristica che il regista napoletano ha in comune con il David Fincher di "Fight Club" o con il Danny Boyle di "Trainspotting" (dai quali ha ripreso diversi stilemi fin da "Le conseguenze dell'amore") è quella che si potrebbe definire l'estetica della "fighetteria": dai personaggi alle situazioni, ciò che viene messo in scena, per quanto sofferto o abbietto possa essere, alla fine risulta comunque innanzitutto "fico", artificiosamente nobilitato sotto il segno della "bellezza" in modalità trendy. Nel film in questione questo aspetto è evidente soprattutto nella ricerca di un respiro solenne, affidato in buona parte alla voce over del Jep Gambardella di Servillo, il quale, con una modalità che sembra provenire da un western di Sergio Leone, sputa sentenze assolute su argomenti a volte di una sconcertante banalità, che stride con il tono pomposo con il quale vengono pronunciate. Ed è proprio questo personaggio ad essere esemplificativo della tendenza descritta: nonostante tutti i suoi difetti, miserie e magari ridicolaggini, viene ritratto comunque come un vincente, dotato di un suo fascino, un tipo "fico" per l'appunto, sul quale lo spettatore potrà facilmente proiettare la propria identificazione o aspirazione subliminale.
Questa modalità espressiva può in parte spiegare anche il successo dell'opera attraverso il suo effetto parzialmente "drogante": assicura una certa "botta" emotiva, non manca di adrenalina e, soprattutto, altera la percezione della realtà in una maniera in fin dei conti piacevole e, nonostante tutto, gratificante. Il risultato è che, sebbene la vicenda narrata non si proponga certo di essere edificante ed insista anzi sul degrado morale di un certo ambiente, si può uscire dalla sala con un senso di piena soddisfazione e magari con l'aspettativa di provare di nuovo emozioni analoghe al prossimo film dell'autore.
Pier

9 commenti:

  1. Lo hai fatto a pezzi! ;)
    Comunque mi sento di condividere gran parte di ciò che hai detto.
    Volevo però invitare a riflettere su un personaggio non secondario: la Santa.
    In particolare mi ha colpito il contatto con la terra, nel sonno e nella salita sulle scalinate: l'unica vera eretica ed anticonformista del film si distingue non per la capacità di elevarsi al di sopra del grigiume decadente e non per una inconsueta forza mistica, quanto piuttosto per la sua "aderenza" alla terra ed alla vita, assente invece in tutti i personaggi del film. Un personaggio forse fin troppo semplice ma che con la sua presenza (secondo me non proprio da fichi) e con i suoi messaggi chiari e forti aiuta a vivere!"
    Alessandro

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    1. Ciao Alessandro, trovo interessante la tua interpretazione, che mi ha comunicato una valenza costruttiva dal punto di vista esistenziale, per quanto vorrei fare delle distinzioni… Quando ho parlato di estetica della "fighetteria" mi riferivo all'approccio stilistico dell'autore che, nella fattispecie, viene esemplificato dal ruolo interpretato dal suo “alter ego” Servillo, non certo da tutti i personaggi del film, i quali, al contrario, sono per lo più caratteri sofferti o grotteschi. Ma è proprio questo aspetto a sottolineare per contrasto il potere ed il carisma del protagonista, che catalizza l'attenzione dello spettatore.
      Il personaggio della Santa può in effetti raffigurare il controtipo di Gambardella ma viene rappresentata attraverso un’elevata stilizzazione (dalla scelta dell’attrice alla modalità interpretativa, dalle soluzioni di sceneggiatura a quelle di regia) che provoca l’effetto dello straniamento: è una figura che rimane troppo enigmatica e conserva dei tratti inquietanti (a partire da una fissità che sembra allucinata) e non induce lo spettatore alla proiezione empatica. Ma anche questa modalità fa parte di una certa maniera alla Fellini…

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  2. Per questo nuovo film di Sorrentino noi della "redazione" (io e le due persone che scrivono in modo più continuativo, AleLisa e Simona) ci siamo voluti cimentare ognuno con una recensione diversa, da scrivere senza farsi influenzare da quelle degli altri due e quindi prima di averle lette. Ho cominciato io pubblicando la mia, oggi arriva quella di Simona e prossimamente quella di Ale. Le potrete leggere qui nello spazio dei commenti.
    Su questo film atteso da molti ci è sembrato opportuno stimolare il confronto e il dibattito anche con i lettori del sito, che sono invitati a partecipare con i loro interventi.

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  3. Simona Ciammaruconi29/5/13

    “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino

    Tutti d'accordo: Sorrentino è uno dei registi italiani che rappresenta magistralmente il nostro cinema all'estero. Ci è dispiaciuto il fatto che non sia stato premiato al festival di Cannes, principalmente però per amor patrio. Ovviamente bisognava fare i conti con tanti altri film e con un metro di giudizio diverso dal nostro.
    Veniamo all'attesissimo "La grande bellezza", che si apre con una scena fortemente esplicativa: festa cafonal-mondana dove i partecipanti si allineano in patetiche danze di gruppo. Questa pellicola vuole essere un omaggio al nostro grande Federico Fellini. Non è quindi una storia narrata con inizio, sviluppo e finale. Entriamo in un clima triste, fatto di rimpianti, di bilanci dove i conti non tornano, di false illusioni infarcite di mediocrità, decadenza, grotteschi tentativi di sentirsi parte di un "bel mondo" che in realtà prende in giro se stesso esibendosi in uno sbiadito tentativo di riscatto non si sa neanche da cosa. Forse da quello che un tempo poteva, forse, essere stato un passato smagliante e che oggi nel pieno declino il protagonista vorrebbe riesumare cercando l'ispirazione per scrivere qualcosa di nuovo. Ma dov'è il nuovo? Due ceti si mescolano essendo due facce della stessa medaglia.
    La regia dona un tributo davvero importante alla città di Roma, vista dal punto squisitamente artistico: un patrimonio di bellezza inesauribile ed ineguagliabile. Toni Servillo è un attore di bravura ineccepibile ma occupa la scena un po' troppo, dispensando, nei panni del protagonista, buoni consigli e perle di saggezza. Sono numerosi poi gli altri attori – tutti italianissimi - che si avvicendano, con un cammeo o con una bella partecipazione, ad impreziosire il film. Ne cito alcuni. Pamela Villoresi: madre oserei dire...fallita, che non comprende le inquietudini bizzarre e pericolose del figlio. Carlo Verdone: un grande cuore di scrittore mediocre bistrattato dalla femmina di turno. Sabrina Ferilli: annoiata ragazzona eccentrica che riaccenderà la passione del Gambardella-Servillo. Lei sembra ben intenzionata a proteggersi dagli uomini, tutti uguali, che la vogliono sedurre ma alla fine - e neanche tanto alla fine - non resiste al "fascino" del premuroso protagonista (merito della colazione a letto? perché di sensualità o sentimento non ce n'è ombra alcuna). Brava, a me personalmente la Ferilli è piaciuta molto. Roberto Herlitzka: meritatissimo Nastro d'Argento alla carriera, interpreta un porporato a suo agio tra la mondanità che dispensa ricette culinarie più che rassicurazioni per l'anima in perdizione. Isabella Ferrari: bella, ricca e annoiata. Serena Grandi: Il suo decadimento fisico è esibito in maniera crudele. Massimo Popolizio: caratterizza il prototipo del chirurgo della borghesia botulino-dipendente.
    Mentre tutto scorre tra scambi intellettual-progressisti, uno dei personaggi muore ed a quel punto, come dopo un cerchio che si chiude, mi aspetto i titoli di coda. Ma no, il film prosegue lento e frammentario alla ricerca di risposte. Stanchezza in platea. Calo dell'attenzione.
    L'unicità dei film di Fellini all'epoca segnò una svolta fondamentale del cinema e del concetto che si aveva di esso. Che piacesse o no. Parliamo però degli anni che vanno dal 1950 al 1990. I capolavori del contrastato Maestro destavano il pubblico dall'oblio dei film istituzionalizzati o di cassetta e lo trascinavano nel sogno, nell'immaginario di un desiderio inesprimibile o nel gorgo di un incubo dove sfilavano ora mostri ora creature bionde dai seni generosi. Detto questo, il tanto atteso lavoro di Sorrentino potrebbe dare decisamente l'idea del "già visto, già fatto, già detto”.

    Simona Ciammaruconi

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  4. A me il film è piaciuto, sì.
    Ribadisco la riuscita performance di Servillo che dà una marcia in più ad una messinscena di forte impatto emotivo.
    Il regista riesce a disgustarci con quelle scene di mondanità disfacente, e come direbbe Pier, il film può aiutare a vivere secondo la legge del contrappasso, ossia interpretandolo al negativo, cioè tenendosi lontani da ambienti come quelli, compiendo scelte più sane per la propria vita, frequentando persone più semplici e umili.
    A differenza dell'ultimo di Sorrentino (Le conseguenze dell'amore) che ho trovato di un'angoscia sconcertante, questo film merita e vale la pena di essere visto.

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  5. ...tra poco arriva la terza recensione de "La grande bellezza", quella di AleLisa. Buona lettura! :-)

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  6. “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino

    Non c'è dubbio. Stavolta Paolo Sorrentino pare proprio che abbia voluto omaggiare Federico Fellini, dando corpo al soggetto di cui è autore con una regia magica e visionaria basata su una sceneggiatura impeccabile ed erudita, scritta a due mani con Umberto Contarello.
    Roma appare in tutto il suo ineguagliabile splendore (spesso sconosciuto tante sono le sue bellezze nascoste), perennemente animata da feste grondanti squallore come i personaggi che le popolano, tristi, volgari, i "nuovi mostri" dei nostri tempi. Tra di essi si distingue il protagonista Jep Gambardella, interpretato dal bravissimo Toni Servillo, il quale si cala a pennello nel ruolo di un vestitissimo dandy annoiato e quasi disgustato della vita che conduce, pur restando ancora capace di guardare al di là dell'effimero in cui ristagna insieme ai suoi sodali. Accanto a lui la nana Dadina (guai a non chiamarla così per sua stessa serafica e tagliente ammissione), donna intelligente e di successo, che al di qua dei suoi occhiali osserva con altrettanta lucidità il mondo neo barocco in cui vive e nel quale è totalmente immersa. Tra i due si stabilisce l'unica relazione amicale vera e propria, umana quasi a dispetto di tutta quella pletora di figure mediocri ed infelici che Sorrentino tratteggia sapientemente con lunghe e dettagliate sequenze, come se non volesse tralasciare alcun particolare della loro intima bruttezza.
    Accompagna il racconto che si snoda una musica azzeccata ed una fotografia riuscita. Qua e là immagini, situazioni e personaggi anche diversi come la kitschissima Sabrina Ferilli, stretta in una tutina luminescente che la fa apparire spassosa pur nella sua tristezza (ed è con lei che Jep riuscirà a trascorrere una notte non all'insegna del sesso freddo e meccanico ma del volersi bene sincero ed affettuoso) oppure come le due "belle persone" alle quali Jep si rivolge riconoscendo la bellezza del legame che le unisce e la profondità del sentimento che le anima. Ma anche scrittori falliti e rinunciatari, attricette in cerca di fama, egocentrici uomini religiosi, donne fin troppo in carne (colpisce l’abbondanza teutonica di Serena Grandi e del suo sorriso), fantomatiche sante dallo sguardo allucinato quasi a simbolo della vacuità imperante intorno, pseudo-artisti senza arte né parte, madri e mogli non riuscite ed incapaci.
    Eppure, riflettendo più a fondo, la superficialità che ci viene mostrata non appartiene solo al mondo dei vuoti-ricchi-vip ma è più vicina a noi tutti di ciò che crediamo. Jep sembra quasi intuirlo e svelare il trucco che si cela nell'inconsistente realtà circostante preparandosi, nel finale, a ripartire con uno slancio diverso, proiettato verso un futuro nuovo e differente, muovendosi finalmente da quel pantano che lo ha immobilizzato per troppo tempo, quasi per una vita intera.

    AleLisa

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  7. In effetti sembra proprio che abbiamo visto tre film diversi!
    Per Pier un’esaltazione della mondanità fine a sé stessa.
    Per Simona nulla di nuovo sotto il sole.
    Credo, invece, che Sorrentino sia rimasto deluso da questa Roma conosciuta dopo essere arrivato nella capitale.
    Sarà rimasto certamente affascinato dalla sua bellezza esteriore ma negativamente impressionato dalla sua scarsa sostanza.
    Non mi ritrovo, quindi, in quanto recensito da Pier e da Simona.
    Certo, c’è molta ‘maniera’ nel film ma è troppo brutto ciò che traspare realmente.
    Non c’è vero fascino ma puro disegno, perimetro dell’effimero dal quale rifuggire (sempre, anche da quello molto meno patinato)...
    Non credo – quindi - che la ricchezza tratteggiata da Sorrentino possa essere invidiata ma solo compianta.

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  8. La bellezza salverà il mondo.
    L'idiota di Dostoevskij.

    Avete citato Fellini ed i richiami sono incontestabili, ma in questo film c’è anche lo spettro di una Madre Teresa che alla fine ci fa vedere la bellezza con il cuore e non con gli occhi.

    Per apprezzare il film in chiave esistenziale, bisogna comprendere il ribaltamento giocato sull’idea di bellezza. «Ho cercato la grande bellezza» afferma il protagonista del film Jep Gambardella. Si capisce che probabilmente ha inseguito una bellezza che non era affatto bella. Ha rincorso la vacuità, un bla-bla-bla, il luccichio di pietre preziose poggiate sul seno di una donna. Insomma, ha posto al centro della sua vita una bellezza effimera, transeunte , apparente. È consapevole di ciò, della sua miseria, dei suoi trucchi per non pensare alla palude in cui lui e i suoi compagni di viaggio si trovano. Ma anche se è mezzo cieco, vede più degli altri; anche se è ubriaco, è più consapevole degli altri. Lui sa, intuisce che la sua è una vita apparentemente bella, ma allo stesso tempo misera. Sa di essere un codardo e sa che l’uomo è fragile, vittima di se stesso. Ha sfiorato la bellezza dell’amore vero e ha superficialmente ignorato anche questo appiglio per uscire dalla palude.

    Alla fine, dalla bruttezza della falsità delle istituzioni religiose arriva la fede idiota , vecchia, brutta in volto, caricaturale, povera, consumata, stanca, morente eppure ancora in grado di salire le scale della sofferenza, del martirio, del sacrificio e dell’amore per dare luce alla vera bellezza. Questa non può essere compresa con il ragionamento, è contraddittoria e si piega anche all’ipocrisia della burocrazia; ci sembra stupida, insensata, irreale, ma nonostante tutto è ancora ciò che ci tiene in vita come esseri umani.

    Ovviamente il protagonista non può percorrere la via dell’ascetismo, della spiritualità e della carità. Egli è molto più simile al cardinale edonista e raffinato. È come se il cardinale stesso facesse parte del gruppo di Gambardella. I due infatti non hanno nulla da dirsi, alimentando la solita vacuità dei dialoghi mondani che a volte toccano anche punte di franchezza cinica. In poche parole, essendo Jep un uomo con molta carne e “poco spirito” non si può sovrapporre alla santa, non può seguirne le orme, ma può trarne ispirazione.

    Seguiamo attentamente gli ultimi dialoghi con la Santa. Essa gli chiede:

    “Perché non ha mai più scritto un libro” Qui lei lo sorprende perché gli fa una domanda di grande umanità e gli sta parlando con il cuore e non in modo asettico o ascetico. Paradossalmente, è uno dei pochi dialoghi del film in cui c’è vera ricerca di empatia e non mero chiacchiericcio.

    “Cercavo la grande bellezza” e guardando la parte più bella di Roma (il Colosseo) all’ora più bella (l’alba) e
    “non l’ho trovata”

    E lei risponde:

    “E sa perché mangio solo radici”

    “No perché?”

    “Perché le radici sono importanti.”

    Come a dire: io e lei abbiamo capito che la realtà è piena di trucchi e tutti recitiamo una parte (io compresa) ma, anche se non lo comprendiamo, il creato è bello. A quel punto la santa fa volare gli aironi permettendo a Jep di contemplare la bellezza del creato anche se per un solo istante.
    Alla fine c’è la consapevolezza di non poter essere diversi da quello che si è, ma le immagini della natura, della fede e dell’amore si intrecciano e lo spingono ad iniziare un nuovo romanzo. La sua piccola ma profonda evoluzione, gli fa vedere l’esistenza con uno sguardo nuovo, capace di cogliere dei fugaci sprazzi di grande bellezza nel marasma senza forma chiamato vita.

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