7 ottobre 2013

FILM AL CINEMA - "The Grandmaster" di Wong Kar-wai

Wong Kar-wai conosce bene l’arte di fare cinema e lo sa. Così, dopo una lunga gestazione (oltre otto anni), l'autore cinese porta sullo schermo (soggetto, sceneggiatura e regia sono totalmente suoi), la storia di Ip Man, maestro indiscusso del famosissimo ed ammiratissimo - non solo dai fan e dagli "addetti ai lavori" - Bruce Lee. Lo fa, ovviamente, con il suo stile inequivocabilmente prezioso, intriso di tatto ed eleganza, a base di atmosfere calde e ricercate, fatto di sguardi (non solo frontali) acuti e vividi, di inquadrature curatissime ed affilate come lame taglienti. La fotografia (di Philippe Le Sourd), con la sua luce soffusa, si presta perfettamente come supporto di questa ricerca stilistica e ne diviene compagna ideale tanto è accorta, puntuale e suggestiva.
A dispetto del tema affrontato, la rappresentazione della violenza non risulta disturbante (nemmeno laddove si intravede del sangue): tutto accade seguendo un ritmo equilibrato e delicato, come cadenzato da un metronomo; i contendenti si scontrano - e si fanno anche male - ma a passo di danza. L’occasione permette all’autore di fare una panoramica (non scende infatti mai nel dettaglio) sulle varie arti marziali, sul contesto in cui nascono e si evolvono (anche adattandosi agli intensi mutamenti storici della Cina moderna), sui singoli personaggi che le incarnano e caratterizzano. Ognuno ha un’impronta particolare, una sorta di "marchio di fabbrica" e non solo nei tratti espressivi ma anche in quelli psicologici, che Wong Kar-wai non tralascia. Al tempo stesso, disegna anche le relazioni affettive tra i diversi personaggi ma stenta a far emergere la centralità del sentimento dell’amore, che resta lambito e non colto. Sembra, infatti, esserci vero spazio solo per il combattimento inteso come arte suprema ed etica di vita (si vince, infatti, solo restando "in verticale").
Peccato per l’immagine e la battuta finale (surplus americaneggiante evitabilissimo) e per alcune scelte stilistiche (rarissime) non troppo felici, che, in qualche modo, opacizzano la pellicola e l’“autorialtà” del regista. Il film resta comunque un’opera ben fatta ed il messaggio che veicola non è affatto negativo, anzi, pienamente condivisibile e meritevole di attenzione laddove evidenzia il valore fondativo per l’uomo - sia come singolo che come parte di una comunità - del rispetto dell’altro e delle regole.
AleLisa

1 commento:

  1. Che “The Grandmaster” potesse essere un film non certo incoraggiante in termini esistenziali era prevedibile, trattandosi di Wong Kar-wai: la storia d’amore che rimane inespressa ed i tormenti interiori mantenuti sottotraccia ricordano altri suoi titoli. Ciò che invece stupisce è il risultato deludente dal punto di vista estetico.
    Le maggiori perplessità riguardano la struttura narrativa, che presenta evidenti problemi, quasi si trattasse di un’opera notevolmente rimaneggiata dalla produzione rispetto alle intenzioni originarie dell’autore: non ho però alcuna notizia in tal senso. L’avvio è faticoso e solo dopo circa mezz’ora si riescono a mettere insieme i diversi tasselli presentati e a definire un po’ i personaggi, che inizialmente si fa fatica a distinguere. Quando poi il racconto sembra aver preso il via si manifestano altre incongruità, la più evidente delle quali è la comparsa, ad un certo punto, del personaggio denominato “Rasoio”, che non si capisce affatto cosa c’entri nell’economia narrativa del film…quesito destinato a rimanere senza risposta fino al termine della visione. Non risulta poi chiaro il destino della famiglia del protagonista: ad un certo punto sembra che l’abbia persa completamente (moglie e figli) durante la guerra, poi, verso la fine, si fa accenno di nuovo alla sola moglie… La trama risulta quindi confusa e lascia aperti notevoli dubbi nello spettatore.
    L’altro grande limite dell’opera è l’eccesso di manierismo. Le sequenze d’azione - girate in modo da far percepire il conflitto fondato sulle arti marziali come una danza coreografica - sono impeccabili ma lasciano l’impressione di professionali variazioni su un immaginario visivo ormai consolidato. E prendono buona parte della durata del film. Per il resto, Wong Kar-wai, nel ricercare un respiro al contempo solenne e malinconico, si richiama esplicitamente a “C’era una volta in America” di Leone, arrivando fino a citarne le inquadrature e ad utilizzarne il tema musicale.

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