1 ottobre 2013

FILM AL CINEMA - "Mood Indigo" di Michel Gondry

Avviso: l'articolo rivela dettagli della trama del film
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Stavolta l’esperienza acquisita nel mondo del videoclip ha preso un po’ troppo la mano al pur sempre bravo Michel Gondry, tanto da fargli creare un’opera (sono sue, infatti, sia la sceneggiatura che la regia) eccessivamente visionaria, surreale oltre il sopportabile, fantasiosa fino alla dismisura. Niente a che vedere, quindi, con l’originale invenzione dell’indimenticabile “Se mi lasci ti cancello” (“Eternal Sunshine of the Spotless Mind”, premio Oscar nel 2005 per la migliore sceneggiatura) e con il viaggio onirico e delicato del penetrante “L’arte del sogno” (“La Science des rêves”, 2006). 
Traspare fin dalle prime battute l’intenzione del regista di andare “al di là” - strappandoci talvolta anche una risata o un semplice sorriso - ma sempre dirigendosi troppo “oltre”. Con l’effetto inevitabile di farci perdere via via la bellezza di un film che pare volerci regalare qualcosa che però non arriva mai, come fosse una sorta di promessa (sottintesa) mai mantenuta (nemmeno in forma di paradosso).
Ma la musica - comunque - c’è. Ed è quella inconfondibile ed esageratamente bella di Duke Ellington (questa volta l’esagerazione è azzeccata e ci sta tutta), il cui inebriante swing jazz (è suo, infatti, il famoso pezzo che dà il titolo al film) dà un tocco tutto particolare al succedersi degli eventi.
Anche gli attori “ci sono” (lo stesso regista ritaglia per sé una piccola parte, quella del medico curante) e si muovono benissimo all’interno del contesto artistico gondriano, a tratti quasi delirante. Anzi, sono proprio loro, insieme alla musica, che ci convincono a seguire il film fino in fondo, muovendosi dapprima in una dimensione luccicante, gioiosa e sfavillante, quindi in una meta-realtà profondamente cupa, di un grigio ferro scurissimo, polveroso e freddo fino a diventare opprimente.
E’ così, infatti, che tragicamente si conclude una storia d’amore (la protagonista femminile si ammala irreparabilmente per aver ingerito una ninfea che le infesta il polmone), dove neppure la poesia del racconto di Boris Vian - da cui è tratta l’opera - ci concede quella soavità, quella leggiadria assaporata all’inizio grazie agli onnipresenti colori accesi ed intensi nonché alle estrose ed irrefrenabili magie visive. No, questa volta per Michel Gondry non c’è, purtroppo, alcuno spazio per una soluzione di respiro e, quindi, per una chiave di lettura salvifica del suo ultimo film.
AleLisa

1 commento:

  1. Complimenti per la recensione, la trovo scritta in una maniera molto incisiva e che si fa leggere con piacere. Il film non l'ho visto perché mi dava l'impressione che non mi avrebbe aiutato a vivere e quello che scrivi me lo conferma...

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