24 ottobre 2013

FILM AL CINEMA - "La prima neve" di Andrea Segre

Il secondo film a soggetto del bravo Andrea Segre, nonostante le sue buone intenzioni, convince un po’ meno del precedente, "Io sono Li", nel quale il tema dibattuto era quello dell’emarginazione. Stavolta il regista (il quale, con Marco Pettenello, è al tempo stesso sceneggiatore ed autore del soggetto) affronta il tema universale del lutto, nello specifico quello non elaborato, che unisce noi tutti, senza confini e senza distinzioni di sorta.
Da una parte c’è il dolore muto serbato nel cuore e negli incubi del piccolo Michele (il bravissimo Matteo Marchel), chiuso fra le sue montagne, dall'altra quello di Dani (l’attore Jean Christopher Folly, anche lui molto bravo) che non riesce ad amare la figlia e che si trova in Italia nonostante non volesse proprio venirci. Accanto a loro si muovono altri validi attori nostrani (fra i quali si distingue Giuseppe Battiston), anch’essi soffocati da angosce inespresse, nonché qualche simpatica comparsa locale (il film, infatti, è interamente girato in Italia, nello splendido scenario del Trentino, località Pergine, nella Val dei Mocheni).
Le riprese risultano pregevoli, lineari, fisse e sono accompagnate da una fotografia d’eccezione, quella di Luca Bigazzi, la cui arte riesce a far fiorire anche al di là dello schermo la bellezza senza tempo di una natura incontaminata, piena di colori, dal verde scuro degli abeti al verde fresco del muschio giovane, dal giallo intenso del sole che penetra tra gli alberi secolari al rosso mattone, l’arancione, il color castagno che prorompe dalla terra inondata di foglie cadute. E poi valli quasi incantate, strade e stradine mai troppo gremite, abitazioni confortevoli, essenziali, graziose, profumate come il legno di cui sono fatte, la bruma del mattino, l’arrivo repentino della notte fredda e silenziosa...infine la neve, la prima della stagione. Quella che, finalmente, riesce a sciogliere tutto, apre alla parola che diventa confessione, verità di sé partecipata e comunicata all’altro, il quale si fa nostro specchio, l’altra parte vera di noi. Non ci si salva da soli - sembra quasi volerci ricordare Segre - perché "le cose che hanno lo stesso odore devono stare insieme".
Eppure, ciononostante, l’opera non riesce a coniugare appieno la semplicità del racconto con i luoghi in cui la storia si svolge e l'autore ci fa solo intuire ma mai veramente percepire la profondità delle relazioni umane che si instaurano. Sembra, infatti, limitarsi a vagare tra i volti degli attori come tra le stupende immagini dei luoghi rappresentati quasi in cerca di un significato preciso da dare ad ogni inquadratura senza giungere mai a suscitare emozioni tonde e decise se non nel finale (e, a quel punto, la reazione emotiva diventa quasi scontata e stona, quindi, un po’). E, per un bravo e promettente regista - non solo di documentari - come Andrea Segre, questo non può che dispiacerci.
AleLisa

2 commenti:

  1. Un salto di qualità questo secondo film di Andrea Segre rispetto al suo esordio con "Io sono Li". La struttura delle due opere presenta delle chiare somiglianze, come a delineare un tracciato autoriale già preciso e sicuro: la storia di due solitudini che si incontrano; l'evidenza data ai vissuti marginali (dettati dalle difficoltà dell'immigrazione o dai ripiegamenti interiori); l'attenzione al contesto, sia in termini paesaggistici che di definizione sociale; lo stile assieme realistico e poetico, che alterna passaggi dal sapore documentaristico ad immagini cariche di spessore lirico.
    Dal punto di vista estetico quindi si evidenzia non solo una continuità ma anche un approfondimento del talento già manifestato in direzione di una maggiore sensibilità rappresentativa, affidata ad una ricerca formale ancor più accurata (come dimostrano soprattutto le riprese in esterni nei paesaggi naturali del Trentino).
    La novità si coglie invece appieno sotto il profilo esistenziale: laddove nel primo film prevale l’accentuazione malinconica con conseguente veicolazione di una visione della vita desolante, in questo gli aspetti sofferti sono presentati con toni più misurati ed il racconto apre alla speranza e ad una maggiore solidarietà. Lo si può verificare con qualche approfondimento di alcuni aspetti narrativi.
    A dimostrarlo è innanzitutto il paragone della modalità di svolgimento di una traccia comune ai due film, quella dedicata ai personaggi volgari o meschini che sembrano “inquinare” la vita degli altri soggetti della rappresentazione e che ad un certo punto prendono le caratteristiche di “opponenti” rispetto ai protagonisti: nel primo caso questo ruolo è affidato al Devis di Giuseppe Battiston, notevolmente invadente a più riprese durante l’arco della narrazione e vittorioso nello scontro con il protagonista; nel secondo la stessa parte tocca al Gus di Paolo Pierobon, elemento molto più marginale rispetto al suo omologo, dai tratti sicuramente meno minacciosi e prima sconfitto poi fatto uscire di scena dal bambino, suo antagonista.
    (SEGUE NEL POST SUCCESSIVO)

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  2. (PROSEGUE DAL POST PRECEDENTE)
    La modifica di approccio si rileva inoltre nel diverso spessore dato ai personaggi “adiuvanti” e nel concreto apporto che sono in grado di fornire: al Coppe di Maco Paolini, magari capace di una certa partecipazione affettiva (comunque sottotono) ma fondamentalmente testimone rassegnato dello squallore della realtà rappresentata (non si tratta certo di un soggetto “operativo”), si può paragonare il Pietro di Peter Mitterrutzner, che - nelle sue doti di equilibrio, integrità, forza, empatia e sostegno pratico - stacca di parecchie lunghezze il suo omologo, senza per questo risultare poco credibile o intriso di retorica (grazie anche alla straordinaria interpretazione, calibrata e ricca di sfumature, che ne dà l’attore, qui al suo primo film per il cinema dopo una carriera teatrale e televisiva). Qualcuno potrebbe dire che si tratta di un personaggio idealizzato, al pari di altri che tratteggiano un contesto meno duro di quello messo in scena in “Io sono Li”(dall’amico immigrato ai paesani accoglienti), e magari muovere l’accusa di scarso realismo a questa seconda prova dell’autore. Il rischio potrebbe esserci ma questo blog è espressamente di parte in tal senso: fatte salve le ragioni dell’arte, si mettono in primo piano quelle esistenziali. Tutto sta nell’approccio che si ha nel disporsi a guardare il film: se dall’arte si cerca innanzitutto uno strumento che possa aiutare a vivere va da sé che si sarà portati a privilegiare la proposta di una traccia costruttiva al puro e semplice realismo della rappresentazione. E il Pietro di “La prima neve” assume lo spessore di un personaggio esemplare, in grado di fornire ispirazione allo spettatore, quella stessa ispirazione, dando ovviamente per scontate le debite differenze, che si cerca nelle grandi figure dell’arte, come magari della filosofia o della spiritualità…
    Infine la differenza tra le due opere la si coglie anche nell’epilogo: se “Io sono Li” si conclude con un’atmosfera profondamente malinconica seguita alla notizia della morte del protagonista, “La prima neve” propone un finale aperto. Non conclude, non scioglie i nodi ma lascia spazio alla speranza ed alla possibilità di ricominciare a partire dalla solidarietà, da una forma istintiva di affetto che nasce dalla reciproca compassione.

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