20 febbraio 2017

CINEMA D'ESSAI - "Latcho Drom" di Tony Gatlif (Francia 1993)

L’insolito film-documentario di Tony Gatlif non è solo un viaggio attraverso lo spazio (Latcho Drom, nella lingua romanes parlata dai gitani, vuol dire appunto “buon viaggio”) ma anche attraverso il tempo, nell’arco di circa 1000 anni. Il progetto del regista, infatti, è quello di guidare lo spettatore, al di là degli stereotipi e dei pregiudizi, attraverso il lungo cammino che le genti Romanes intrapresero dopo l’anno mille, dalle regioni più occidentali dell’India, probabilmente il Rajastan, attraverso la Persia, la Turchia, i Paesi dell’Europa orientale, i Balcani, il Nord Europa, la Francia e infine la Spagna, lungo il corso dei secoli. Il filo conduttore del film è la musica, unica eredità, patrimonio e ricchezza di un popolo che ha fatto del nomadismo la sua scelta di vita, del disprezzo della ricchezza e degli agi dei Gage (i non Rom) la sua filosofia. 
La musica, eterea, impalpabile, eterna e ubiqua, suonata senza la conoscenza delle note e degli  spartiti, ha amalgamato un popolo spesso in fuga dalle civiltà che non li ospitava o li scacciava apertamente. Il patrimonio musicale gitano vanta nel suo repertorio la melodia degli odierni Rabari (i famosi musicisti del subcontinente indiano), sonorità turco-caucasiche e balcaniche, la manouche  della Francia, il flamenco della Spagna e l’americano Gypsy Swing (fra tutti Django Reinhardt). La musica trascende le divisioni dei popoli, le paure di chi è diverso e per di più nomade, di chi vive nelle periferie, nei ghetti o nelle aree di sosta dei borghi rinascimentali, delle città industriali o delle metropoli moderne. Gli zingari - nome improprio visto che tra loro si chiamano semplicemente rom, ossia uomo - si sono divisi nel corso dei secoli in grandi famiglie con peculiarità e caratteristiche legate ai mestieri, alla lingua, alle tradizioni o ad altro ancora.
Nessun regista saprebbe raccontare tale avventura umana meglio di Tony Gatlif, autore di origini gitane, capace di affrontare con filologia e poesia, armonia e schiettezza, l’anima di un popolo triste, troppo spesso odiato, evitato, stereotipato e scacciato ma mai compreso del tutto. Un popolo dalle tante inaccettabili contraddizioni ma incapace nella storia di avere un solo esercito o aver mai mosso guerra ad un altro popolo, subendo, senza nemmeno la possibilità di lasciarne testimonianza scritta, persecuzioni e stermini (basti pensare al loro “porrajmos” o “grande divorazione” portato a termine dai nazisti durante la seconda guerra mondiale).  Il film sottolinea la loro perenne incapacità di affidare le loro tradizioni, la loro memoria collettiva ad una qualsivoglia modalità che sia durevole, come la scrittura. La loro eterna malinconia si affida alle effimere e fuggevoli note delle musiche e delle canzoni, tramandate all’aria aperta, sui carrozzoni o le roulotte, di generazione in generazione, da loro che sono appunto chiamati “figli del vento”.
Danilo Giorgi

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