14 febbraio 2017

CINEMA D'ESSAI - "Storia del cammello che piange" ("Die Geschichte vom weinenden Kamel", titolo internazionale "The Story of the Weeping Camel") di Byambasuren Davaa e Luigi Falorni (Germania/Mongolia 2004)

Può un documentario, incentrato semplicemente sulla vita di una famiglia di pastori nomadi della Mongolia, essere capace di intrattenere lo spettatore per un’ora e mezza, quanto e più di un’opera a soggetto? Può una trama banale, banalissima (ossia quella di un cammello che, dopo aver partorito con tanti sforzi un cucciolo albino, rifiuta di accettarlo come proprio), diventare interessante, coinvolgente e soprattutto toccante? Ebbene sì: la magica alchimia di questo piccolo ma immenso capolavoro è possibile se la si realizza con l’incanto della musica mongola, capace di commuovere i protagonisti (quadrupedi compresi) e anche i cinici più duri che hanno guardato il film con scetticismo.
Quando nel 2003 si accinsero a filmare la vita quotidiana di una famiglia di pastori nomadi del deserto del Gobi, Byambasuren Davaa e Luigi Falorni probabilmente avevano in mente di realizzare un documentario dettagliato e avvincente su una delle ultime popolazioni nomadi del pianeta, evidenziandone le difficoltà della vita (a causa delle asperità del clima nonché delle condizioni ambientali) e forse nulla più. 
Il contatto diretto con le persone, dure ma gentili, con i paesaggi di inimmaginabile bellezza - dove gli orizzonti piatti non sono quelli azzurri del mare ma quelli verdi di una distesa di steppa senza fine, di un cielo di un turchese troppo vivido ed intenso per non ritenerlo la personificazione dello spirito divino (teng-ri) - e, soprattutto, l’ascolto continuo di una delle musiche più intense e profonde che l’umanità possa aver mai prodotto, forse tutto ciò ha trasformato il solito e banale documentario nella registrazione di una storia che, pur nella sua semplicità, racconta a noi uomini moderni e tecnologici qualcosa di ancestrale, di antico e di atavico che non può lasciarci indifferenti. Qualcosa di sepolto nel nostro codice genetico, mutato da generazioni e generazioni di sedentari cittadini, si risveglia, si rianima e, prepotente, ci grida qualcosa di istintivo, irrazionale e profondamente forte. 
Al termine della visione possiamo anche razionalmente catalogare il film come un documentario dalla trama sciocca e insulsa…eppure, animata dalle note del morin-khuur, (il semplice e rudimentale strumento a corde suonato nelle scene finali) e dal lamento-nenia della shamana guaritrice, la forza espressiva dell’opera ci trasmette qualcosa di meta-razionale, che esula da qualsiasi accettazione logica, entra nella carne, nelle vene, in ogni singola cellula e ci fa rimpiangere con nostalgia struggente la perdita di un mondo che avevamo ma poi abbiamo abbandonato, trasformato e demolito, abbandonando al contempo la cognizione di quel legame eterno che ci lega con la natura, i suoi cicli e tutti i suoi abitanti. 
La nenia del film non è dunque solo musica di nicchia, qualcosa di interesse etno-antropologico (trattando nella stragrande maggioranza dei suoi testi l’amore verso i cavalli, i cammelli, le capre e altri animali): è qualcosa che trafigge la nostra evoluta razionalità lasciandoci solo un senso di disillusione e disincanto per tutto ciò che di moderno ci circonda.
Danilo Giorgi

1 commento:

  1. Ho visto da poco "Storia del cammello che piange", proprio a causa di questo articolo...
    Mi è piaciuto ma non ho provato il tuo entusiasmo, l'ho trovato un documentario interessante e poetico ma il trasporto emotivo per me non è stato troppo intenso...
    Su alcuni dei temi che affronti ho trovato molto coinvolgente "Beasts of the Southern Wild" di Benh Zeitlin, che come film però non c'entra nulla con questo...

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