15 dicembre 2012

FILM - “Minority Report” di Steven Spielberg

Spielberg è un cineasta dalle molteplici facce: c’è il cantore di fiabe moderne, con al centro bambini ed extraterrestri ("Incontri ravvicinati del terzo tipo", "E.T.", "Hook", "A.I."); c’è l’epico narratore di eventi storici, qualche volta asciutto ("L’impero del sole"), più spesso incline alla retorica ("Schindler’s List", "Salvate il soldato Ryan"); c’è infine il regista di prodotti di genere, incentrati sul ritmo e sull’azione ("Duel", "Lo squalo"), nonché sull’ironia ("1941: allarme ad Hollywood", "I predatori dell’Arca perduta"). A quest’ultimo filone appartiene "Minority Report", che, nonostante le pretese di parabola morale, si fa apprezzare soprattutto come noir fantascientifico di buona fattura. La vicenda è ambientata nel 2054 a Washington, dove gli omicidi sono stati estirpati dal tessuto sociale grazie alla costituzione del dipartimento di polizia precriminale, in grado di prevenire i delitti attraverso le visioni dei precog, tre individui dotati del potere della preveggenza: quando un poliziotto del dipartimento si vede segnalato in una premonizione, credendosi vittima di un complotto, decide di fuggire, braccato dai suoi stessi uomini.
Dotato di un possente apparato figurativo (merito in buona parte della fotografia di Janusz Kaminski), il film è percorso da un’atmosfera cupa e disseminato di richiami metafisici di indubbio fascino (il poliziotto federale che ha studiato teologia; il "tempio" dove vivono i precog, venerati come divinità new age; il carcere come limbo per lobotomizzati, con il secondino - novello Caronte dal ghigno mellifluo - che suona un organo da chiesa), i quali però, sganciati come sono da qualsiasi ulteriore approfondimento o visione d’insieme, rimangono isolate tessere estetizzanti in un mosaico contenutistico privo di una struttura portante. Anche l'asse tematico principale - il conflitto tra il "libero arbitrio" e la "predestinazione", esemplificato dal percorso del protagonista - non viene trattato con sufficiente rigore: l’happy end, si sa, è d’obbligo (sempre di Hollywood - e di uno dei suoi mentori - stiamo parlando) e le premesse pessimistiche si ribaltano in una rinnovata fiducia nell'uomo, che risulta posticcia e superficiale perché non si fonda su un’elaborata visione della vita bensì sull'ennesimo conflitto tra la "mela marcia" e l’individuo dotato di salvifico spirito d’iniziativa.
Nonostante il fallimento delle ambizioni allegoriche, "Minority Report" resta un prodotto di genere indubbiamente riuscito, grazie al ritmo sincopato, al montaggio incalzante, ai vertiginosi movimenti di macchina, agli effetti speciali dosati intelligentemente, nonché ad alcuni spunti interessanti sull’invasione tecnologica del prossimo futuro (la sceneggiatura è tratta da un racconto di Philip K. Dick). Il finale purtroppo è un po’ deludente, con un colpo di scena anticipato mezz'ora prima e un intreccio che si sbroglia in modo assai convenzionale ma, nel complesso, il film mantiene alta la tensione per almeno tre quarti della sua durata. E quindi, sotto il profilo dell'intrattenimento, si può anche apprezzare un’opera come "Minority Report", a patto di non prenderla troppo sul serio.
Pier

Nessun commento:

Posta un commento