22 maggio 2012

APPROFONDIMENTI - Breve storia del western all'italiana (2)

2. Il western "nero"
Nel 1966 esce nelle sale "Django" di Sergio Corbucci, un film che, nonostante i suoi evidenti difetti (la sceneggiatura presenta più di un’incongruenza e la regia in alcuni passaggi è poco puntuale), segna una tappa importante nella storia del filone: lo stesso attore protagonista, l’allora sconosciuto Franco Nero, diviene un’icona del western all’italiana. In un villaggio al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, un pistolero di nome Django (Franco Nero) si inserisce nella guerra fra due bande rivali, una composta da americani razzisti ed incappucciati, l’altra da banditi messicani che si atteggiano a rivoluzionari.
La trama presenta delle evidenti rassomiglianze con quella di "Per un pugno di dollari": Corbucci estremizza la formula inaugurata da Leone, per arrivare però a dei risultati decisamente personali, destinati ad incontrare i gusti del pubblico. Django è un pistolero dal look funereo (è interamente vestito di nero e porta con sé una bara in cui è nascosta una mitragliatrice); l’atmosfera è cupa, squallida e opprimente (da un vecchio e malsicuro ponte di legno sospeso sulle sabbie mobili si arriva in un paese semideserto dalle strade fangose, con un unico saloon privo di avventori e popolato esclusivamente da sguaiate prostitute); la violenza è esasperata, con punte da horror (in una scena i messicani tagliano un orecchio ad un uomo e lo costringono a mangiarselo).
Da questo film nasce un vero e proprio sottofilone, quello del western "nero", connotato dalla riproposizione, con diverse variazioni, di quegli elementi peculiari che avevano fatto di "Django" un grande successo. Da "Preparati la bara!" (1967), di Ferdinando Baldi, a "Mannaja" (1977), di Sergio Martino, proliferano i western dai toni macabri e funerei, popolati spesso da eroi nerovestiti in cerca di denaro o di vendetta.  La serie di Sartana, iniziata da Gianfranco Parolini con "…Se incontri Sartana prega per la tua morte" (1968) e proseguita da Giuliano Carmineo con altri quattro film, aggiunge un tocco di humour al consueto contesto del sottofilone: se Django mieteva vittime con la mitragliatrice, Sartana attende i banditi al centro della piazza del paese, suonando un organo da chiesa, le cui canne, disponendosi orizzontalmente, cominciano a far fuoco al momento della resa dei conti. "Django il bastardo" (1969), di Sergio Garrone, è invece un western caratterizzato in senso onirico: il protagonista questa volta è addirittura un morto, un fantasma che torna dall’aldilà per fare giustizia di un massacro compiuto anni prima.
Un caso a parte è quello di Giulio Questi, che esordisce dietro la macchina da presa con "Se sei vivo spara" (1967), un western anomalo, destinato, negli anni successivi, ad una fama sempre crescente presso gli appassionati del filone. In una non meglio precisata cittadina, un ingente quantitativo d’oro, sottratto ad un gruppo di fuorilegge barbaramente linciati dalla folla, scatena l’avidità e la violenza di tre contendenti: un pistolero mezzosangue (Tomas Milian), giunto in città sulle tracce dei banditi linciati, assiste allo svolgersi degli eventi, maturando una sempre crescente avversione nei confronti degli abitanti del posto.
Considerato, non a torto, uno dei western più violenti mai realizzati, "Se sei vivo spara" coniuga un’impostazione statica ed antispettacolare con una rappresentazione "urlata" e a tinte forti, connotata da una sorta di furore espressionista. Ma, nonostante il vigore espressivo delle immagini e un’indubbia originalità di ispirazione, il film si riduce ben presto ad un mero campionario di turpitudini umane (dallo stupro di massa alla profanazione di un cimitero), narrate con toni quasi biblici ed apocalittici (uno dei protagonisti muore urlando tra le fiamme, con il volto deturpato proprio dall’oro, reso liquido ed incandescente dal calore): la crudeltà esasperata mostra la sua origine intellettuale e moralistica, mentre le implicazioni metaforiche della vicenda risultano eccessivamente astratte.
Prendendo le mosse dalle atmosfere del sottofilone "nero" (al quale lui stesso aveva contribuito a dare vita), Sergio Corbucci realizza nel 1968 "Il grande silenzio", un film di notevole spessore, che arriva a trascendere i confini del fenomeno italiano fino a reinterpretare le regole dello stesso genere western. A Snow Hill, una cittadina di montagna, Silenzio (Jean-Louis Trintignant), un pistolero muto che si batte contro le ingiustizie, viene incaricato da una donna di fronteggiare Tigrero (Klaus Kinski), un feroce bounty killer colpevole di averle assassinato il marito.
Si tratta di un western di grande originalità, a partire dalla scelta di un attore come Trintignant nel ruolo del protagonista privo di parola e dall'ambientazione in un paesaggio interamente ricoperto di neve. Al registro epico Corbucci preferisce quello lirico, sottolineato dalle struggenti note di Ennio Morricone. Il ritmo è programmaticamente lento, interrotto da poche ma incisive scene d’azione, mentre i personaggi, anche se mantengono un’aura mitica, sono tratteggiati in modo piuttosto verosimile rispetto alla media. La vicenda si propone chiaramente come una metafora politica della società capitalistica. Ma il conflitto assume anche le sembianze di una costante universale, di un principio connotato in senso metastorico: la natura è ostile ed i rapporti umani sono regolati dalla "legge del più forte", della quale fa l'apologia il personaggio interpretato da Kinski (utilizzato al meglio delle sue potenzialità). Film cupo e tragico, malinconico e pessimista, "Il grande silenzio" resta uno dei più alti risultati espressivi raggiunti nell'ambito del western all'italiana.
Pier

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