29 maggio 2012

APPROFONDIMENTI - Breve storia del western all'italiana (3)

3. Il western politico
Nello stesso periodo in cui "Django" riscuote successo nelle sale, esce un film destinato a sua volta ad incidere sul successivo sviluppo del western all’italiana: "Quien sabe?" (1966) di Damiano Damiani, capostipite dei cosiddetti western politici o "tortilla-western", come vengono spesso chiamati alludendo all’ambientazione messicana.
Da "Per un pugno di dollari" a "Il ritorno di Ringo", da "Sette pistole per i MacGregor" a "Django", caratteristica peculiare del filone era stata l’ambientazione al confine fra il Messico e gli Stati Uniti, nonché la presenza di personaggi messicani, spesso nel ruolo di antagonisti dello yankee. Questo perché, trattandosi di film girati in Italia e in Spagna, ricorrere ad un'ambientazione latina creava molti meno problemi: non era facile, ad esempio, far passare per americani attori e comparse dai tratti somatici spiccatamente mediterranei, perfetti, invece, come messicani. "Quien sabe?" è invece il primo western all’italiana ad essere interamente ambientato in Messico, per di più durante gli anni della rivoluzione. Il film è incentrato sul rapporto che si instaura tra El Chuncho (Gian Maria Volonté), rozzo ed ignorante bandito messicano che ruba le armi ai governativi per venderle ai ribelli, e Bill Tate (Lou Castel), un freddo ed elegante americano che si aggrega alla banda del primo. 
Con "Quien sabe?" il western all’italiana si contamina con l’attualità, alludendo agli avvenimenti politico-sociali del periodo. Il film di Damiani si propone come una metafora dei rapporti fra l’occidente industrializzato e il terzo mondo: la rivoluzione messicana è un travestimento della contemporaneità, mentre la vicenda narrata rimanda direttamente a Cuba, al Vietnam, al Sudamerica. Non a caso l’adattamento e i dialoghi del film sono di Franco Solinas, uomo di cinema politicamente impegnato a sinistra, sceneggiatore di film come "Kapò" (1960) e "La battaglia di Algeri" (1966), entrambi diretti da Gillo Pontecorvo, ambientato in un lager nazista il primo, durante la guerra di liberazione algerina il secondo. 
Come è stato detto, da "Quien sabe?" prende avvio un nuovo sottofilone, quello del "tortilla-western", caratterizzato dall’ambientazione messicana, dalle tematiche rivoluzionarie e, spesso, dalla riproposizione dello stesso prototipo narrativo del film di Damiani (quello dell’incontro-scontro tra un peone e un gringo). Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, in un’epoca di nuovi fermenti sociali sfociati nel periodo della contestazione, le tematiche affrontate in questi film riscuotono l’interesse degli spettatori italiani, portati, probabilmente per ragioni storiche e culturali, ad identificarsi facilmente con le vicende di un popolo latino che lotta contro la povertà e lo sfruttamento. Innanzitutto i personaggi, i luoghi e le atmosfere dei western messicani richiamano alla mente certi aspetti dell’Italia meridionale. Inoltre il cinema italiano del dopoguerra, dal neorealismo alla comicità di Totò, dalla commedia all’italiana al cosiddetto cinema d’autore, aveva privilegiato la rappresentazione di ambienti popolari, descrivendoli con uno spiccato piglio realistico: lo dimostrano film, per altri aspetti molto diversi, come "Ladri di biciclette" (1948) di Vittorio De Sica, "Miseria e nobiltà (1954)" di Mario Mattoli, "Il grido" (1957) di Michelangelo Antonioni e "I soliti ignoti" (1958) di Mario Monicelli. Non stupisce quindi che questa peculiarità della nostra cinematografia si sia espressa anche nel western, trovando un pubblico già predisposto ad accoglierla. 
Nello stesso anno di "Quien sabe?", Carlo Lizzani, un altro regista intellettuale, si cimenta in un western politico. "Requiescant" (1966) è un interessante, anche se non riuscito, tentativo di coniugare religiosità e motivazioni rivoluzionarie: non a caso partecipa al film, in qualità di attore, Pier Paolo Pasolini, che porta con sé Franco Citti e Ninetto Davoli. 
Requiescant (Lou Castel), un pistolero che legge la Bibbia e spara solo per difesa, si mette sulle tracce della sorellastra scomparsa. La ritrova in un saloon, vittima, come tanti altri, di un signorotto locale (Mark Damon) che ha usurpato la terra ai messicani. Alla fine Requiescant farà causa comune con i ribelli di don Juan (Pier Paolo Pasolini), un prete che ha abbracciato la logica della rivoluzione. 
Lizzani ha l’indubbio merito di aver realizzato uno dei pochi western all’italiana in cui si tenti un esplicito discorso sulla religione. Purtroppo l’eccessiva preoccupazione teorica compromette l’esito del film, penalizzato da dialoghi fin troppo didascalici, da una sceneggiatura spesso improbabile e da una regia non proprio all’altezza della situazione. 
Tra il 1967 e il 1968 Sergio Sollima realizza una trilogia western ("La resa dei conti", 1967; "Faccia a faccia", 1967; "Corri uomo corri", 1968) in cui esprime una originale cifra stilistica e tematica, ritagliandosi un posto decisamente unico nel panorama del filone. 
"La resa dei conti" è un western dalla trama gialla che coniuga i toni da commedia con la suggestione dell'epica e del mito. Il film, che si propone come un'esplicita metafora terzomondista, sviluppa il proprio discorso politico attraverso il rapporto tra i due protagonisti della vicenda: un bounty killer americano, interpretato da Lee Van Cleef, ed un ladruncolo messicano di nome Cuchillo (Tomas Milian), personaggio, quest'ultimo, destinato a divenire assai popolare tra le fila della contestazione sessantottina. "Faccia a faccia" è invece incentrato sul confronto esistenziale e culturale tra due personaggi provenienti da opposti ambienti sociali: un civile professore del New England (Gian Maria Volonté) ed un celebre bandito del Texas (Tomas Milian). Denso di allusioni politiche (soprattutto ai movimenti fascisti) e di richiami figurativi alla spiritualità cristiana, il secondo western di Sollima è anche uno dei suoi film più personali: ad una tematica psicologica ed introspettiva corrisponde un percorso narrativo interrotto da poche scene d'azione ed un rigore formale che poco concede alla rielaborazione mitica della violenza. In "Corri uomo corri" il regista ripropone il personaggio di Cuchillo (nuovamente interpretato da Tomas Milian), accentuandone, spesso in modo macchiettistico e caricaturale, il suo ruolo di sottoproletario capace di riscattarsi con l'astuzia da un sistema sociale e politico che prevede l'oppressione e lo sfruttamento legalizzati. 
Uno dei tratti distintivi della personalità di Sollima è la sua visione della vita, ispirata ad un ottimismo progressista che assume, in alcuni momenti, uno spessore spirituale. A parte la metafora terzomondista, presente nel primo e nel terzo film, il suo progressismo va inteso innanzitutto come fiducia nelle potenzialità di maturazione interiore del singolo, dal quale può scaturire una scelta etica destinata, in seconda istanza, ad avere ripercussioni sull’ambiente sociale, caricandosi eventualmente anche di un significato politico. Il rapporto dialettico tra il determinismo sociale e la libertà dell’individuo si esprime attraverso l’idea narrativa della contrapposizione, psicologica e culturale, tra due caratteri antitetici, in grado di influenzarsi vicendevolmente. Protagonisti della trilogia sono quindi dei personaggi a tutto tondo, psicologicamente approfonditi e ricchi di sfumature, i quali si differenziano nettamente dalle caratterizzazioni archetipiche ed unidimensionali presenti, sulla falsariga dei film di Leone, in buona parte dei western all’italiana. Di conseguenza, "La resa dei conti", "Faccia a faccia" e "Corri uomo corri" sono connotati dall’assenza di eroi: non soltanto di quelli intesi nel senso tradizionale del termine, ma anche dei nuovi eroi del filone italiano, come lo straniero senza nome interpretato da Clint Eastwood. 
Lo sguardo ottimistico del regista si riflette nello stile sobrio e misurato, dal respiro epico e classico, oltre che nella capacità di restituire il sentimento panico del rapporto tra l’essere umano e l’ambiente naturale: quest’ultimo, da semplice contorno paesaggistico, quale rimane anche in western eccellenti dal punto di vista figurativo, diviene parte integrante della vicenda narrata. 
Decisamente su un altro piano si situano i due "tortilla-western" di Sergio Corbucci, "Il mercenario" (1968) e "Vamos a matar compañeros" (1970), che stemperano il messaggio politico con una buona dose di ironia. Analoghi nel cast e nella struttura narrativa, i due film, più sobrio e disincantato il primo, più esplicito e romantico il secondo, dipingono una rivoluzione da operetta e inclinano verso toni populisti, ma risultano eccellenti da un punto di vista spettacolare, offrendoci forse i migliori esempi di quello "stile Corbucci", basato su un ritmo frenetico e un montaggio serrato, che avrà tanto successo presso i cinefili. 
"Il mercenario", che inizialmente doveva essere diretto da Gillo Pontecorvo, è tratto da un soggetto di Giorgio Arlorio e Franco Solinas, il quale venne completamente rimaneggiato in fase di sceneggiatura. Il film narra il sodalizio che si instaura tra un peone ribelle (Tony Musante), a capo di un gruppo di sbandati, e un mercenario polacco (Franco Nero), assunto dal primo come stratega. In "Vamos a matar compañeros" gli ammiccamenti politici si fanno più chiari ed evidenti. I protagonisti sono un trafficante d’armi svedese (Franco Nero) e uno scurrile peone messicano (Tomas Milian), una coppia in tutto e per tutto simile a quella del primo film. 
Si è spesso parlato di una "trilogia messicana" di Sergio Corbucci, alludendo ad un successivo film del regista, "Che c’entriamo noi con la rivoluzione?" (1972), interpretato da Vittorio Gassmann e Paolo Villaggio: in realtà, più che di un "tortilla-western", si tratta di una commedia all’italiana in trasferta in Messico. 
Nel panorama dei western messicani, "Tepepa" (1969) di Giulio Petroni è indubbiamente il più accurato nella ricostruzione storica. Il soggetto e la sceneggiatura portano la firma di Franco Solinas e Ivan Della Mea, cantautore di sinistra molto attivo in quel periodo. La vicenda vede intrecciarsi i destini di tre personaggi: un capo rivoluzionario detto Tepepa (Tomas Milian), un medico inglese (John Steiner) venuto a vendicare la fidanzata, e uno spietato generale (Orson Welles) a capo della reazione governativa. Il film coniuga il messaggio politico con il consueto tema della vendetta, assumendo i toni della tragedia. 
Uno degli ultimi "tortilla-western" lo firma Sergio Leone con "Giù la testa" (1971), che narra, con un tono nello stesso tempo drammatico e picaresco, le avventure di Sean (James Coburn), rivoluzionario irlandese disilluso, e di Juan (Rod Steiger), sottoproletario messicano destinato, suo malgrado, ad unirsi alla lotta del suo popolo. Con il suo sguardo anarchico, Sergio Leone ribalta il tradizionale ottimismo dei western messicani, prendendo le distanze da ogni facile retorica populista: se, da una parte, mostra un’indubbia adesione alle motivazioni del popolo oppresso (come dimostra la scena iniziale), dall'altro ci ricorda l’infrangersi degli ideali sugli scogli delle "normalizzazioni" post-rivoluzionarie. Anche se non nega che, dalle ceneri del "pessimismo storico", possa nascere una sorta di personale religiosità. Film lirico, visionario e pessimista, "Giù la testa" resta l’unica incursione di Leone nell'ambito del western politico.
Pier

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