6 marzo 2017

CINEMA D'ESSAI - "Il ritorno" ("Vozvraščenje") di Andrej Zvjagincev (Russia 2003)

Tra i tanti aspetti notevoli del film di Zvjagincev due sono probabilmente quelli che risultano essere di maggiore potenza: l’incredibile uso della fotografia e lo straordinario valore del silenzio.
L'elemento visivo è di grandissimo impatto: accompagna lo stato d’animo dei personaggi (in particolare dei due ragazzi della storia) e ne sottolinea le tensioni più interne. I paesaggi nordici nei pressi del Lago Ladoga e del Golfo di Finlandia sono amplificati, espansi e vivificati da un’atmosfera al limite del magico. Qualcosa di stregonesco, sciamanico e profondamente inquietante popola il silenzio del lago e della campagna circostante: il regista non solo è stato in grado di coglierlo ma anche di trasformarlo in una sorta di nuovo personaggio. 
L’arrivo di un padre - assente dalla vita dei due figli per troppo tempo - rompe l’equilibrio che i due ragazzi adolescenti faticosamente si erano costruiti negli anni. La sua prima notte nel letto della madre e il suo successivo risveglio permea lo sguardo dei ragazzi di curiosità mista a inquietudine: visivamente l’immagine del suo corpo, elemento estraneo nell'armonia familiare, ricorda il Cristo morto di Andrea Mantegna. La fotografia, in particolare quella dei paesaggi, accompagna ed esaspera il clima di mistero che aleggia nelle parole non dette del padre in una climax di tensione che si scioglie nel silenzio muto ed ovattato del fondale lacustre.
Proprio questo silenzio, questo mistero che nasconde qualcosa di indicibile e inconfessabile pervade ogni aspetto del film. Il padre, come moltissimi reduci dai gulag sovietici, non può parlare di ciò che ha visto, di ciò che ha vissuto, di ciò che è stato, perché una cortina di vergogna, di paura e di dolore lo avvolge come un sudario. Il suo segreto, nascosto in una piccola scatola arrugginita affonderà con lui. Il silenzio dei sopravvissuti, delle vittime, della storia cala con un dolore incomunicabile sulle vite delle nuove generazioni che di tale sofferenza non sanno e forse non vogliono sapere.
Il film è intriso di dolore. Soffre chi ferisce ma anche chi è ferito ferisce a sua volta inconsapevolmente. E questo dolore si amplifica perché a causarlo e a subirlo è un padre con i suoi due figli.
Il giovane Vladimir Garin, straordinario interprete di questo film, morirà in modo assurdo quanto imprevisto poche settimane dopo la conclusione delle riprese: per un banale incidente, affogherà nello stesso lago, a pochissima distanza proprio dal punto in cui vennero girate le scene finali del film.
Danilo Giorgi

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