9 marzo 2017

MUSICA AL CINEMA - Un indecifrabile successo: “A whiter shade of pale” dei Procol Harum (1967)

L’alchimia che determina il successo di una musica, di un brano non sempre è analizzabile o facilmente individuabile. Accade, spesso senza un perché o una chiara eziologia. Quando però il brano in questione è esso stesso una fusione di incomprensibili misteri avvolti in una fitta coltre di ermetici significati allora davvero si deve necessariamente sospendere qualsiasi analisi o giudizio razionale.
Nel 1966 il testo sibillino di Keith Reid, cantato dalla struggente voce blues di Gary Brooker, incontrò la straziante melodia rielaborata dall’Aria sulla quarta corda dalla Suite n. 3 in sol maggiore di Johann Sebastian Bach, suonata da un organo Hammond: il successo di A whiter shade of pale dei Procol Harum esplose come una folgorante visione psicotropa nell’Europa e negli Stati Uniti attraversati dalle contestazioni di quel periodo. 
Forse il brano può essere considerato sotto molti aspetti la vera colonna sonora di tutto quel fermento rivoluzionario che coinvolse i giovani della fine degli anni ’60. A distanza di mezzo secolo il mistero del suo testo, delle sue parole, del suo recondito e criptico significato resta irrisolto. Probabilmente la sua genesi affonda le radici nell’atmosfera onirica di un periodo in cui le droghe aprivano la visione di mondi paralleli. Non c’è dunque ragione nel voler necessariamente analizzare, scomporre e forse vivisezionare quella che in realtà è nata come semplice visione, flusso di coscienza e mera rappresentazione delle impressioni di due musicisti, figli di un’epoca e di un’espressività artistica particolare.
Le cover tentate da diversi cantanti italiani del tempo, seguendo una moda - assai consolidata - di far conoscere al pubblico italiano il testo, privano quest’ultimo della sua atmosfera onirica, tramutandolo in qualcosa di insulso e forse privo di senso. Il testo è semplice visione di un luogo, di una scena; protagonisti sono non tanto i sentimenti quanto le sensazioni, quelle percezioni subliminali e inconsce che strutturano il nostro essere, esuli dal controllo della nostra razionalità. 
Negli anni posteriori al grande successo (innumerevoli le cover di altri cantanti più o meno celebri) gli artisti cercarono di spiegare la nascita di tale brano in diverse interviste ma, fedeli inconsciamente o meno al loro brano, non seppero (o non vollero) chiarificarlo, infittendo il mistero della sua genesi e delle visioni che esso evoca. Ciò che trasmette è indubbiamente una sensazione di malinconica tristezza e mestizia, di nostalgici addii, di rimpianti e perdite.
Quest’atmosfera pervade le scene di numerosi film in cui la canzone è stata utilizzata come colonna sonora, da Il grande freddo (The Big Chill) di Lawrence Kasdan (USA 1983) a Tra cielo e terra (Heaven & Earth) di Oliver Stone (USA 1993), fino alle commoventi scene finali dello straordinario film di Marco Tullio Giordana I cento passi (Italia 2000), dove il rimpianto per la perdita di Peppino Impastato si fonde con la consapevolezza del tramonto di un’epoca, dei sogni e delle illusioni di un’intera generazione.
Danilo Giorgi

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